Il giudizio su quest’ultima fatica (!? vedi dopo…) dei B.O.C. dipende dalla direzione da cui si arriva al suo ascolto: l’ammiratore convinto, più o meno storico, dei nostri troverà pane per i suoi denti in questi nove pezzi inediti più tre cover, e concederà ampia indulgenza al fatto che le musiche non siano attuali, bensì recuperate per undici dodicesimi da una fase piena e fertile di carriera, ossia gli anni a cavallo fra i settanta e gli ottanta. Ergo, cosa sana e giusta averle messe a disposizione dei fans e di chi è interessato all’hard rock melodico di vertice, a cui i B.O.C appartengono alla grande.

Invece lo scettico nei loro confronti, a sua volta più o meno storico, in molto casi il medesimo che “…dopo i primi tre, quattro album non hanno combinato più niente di buono, diventando una band AOR (puah!…)”, liquiderà il lavoro come inutile, sotto performante, abborracciato, il simbolo di una lunga agonia che non vuole terminare.

Sono veri tutti e due i punti, antitetici, di vista. Quasi, giacché niente agonia per l’Ostrica Blu, visto che i loro dischi degli anni duemila (pochi purtroppo, l’ultimo del 2020) sono fra i loro migliori, oh yes!

La storia dietro il disco, uscito quest’anno, è che qualcuno ha preso l’iniziativa di recuperare gli scarti di alcune sessioni di registrazione relative ad ottimi album, quali “Mirrors”, Cultosaurus Erectus”, “Fire of Unknown Origin” e “Revolution By Night”. I nastri erano parzialmente rovinati , ma oggi le possibilità dei computers e delle Intelligenze Artificiali sono incredibili, così i primitivi demo, esausti ed approssimativi, sono stati restaurati e lucidati fino ad assumere una veste, se non allo Stato dell’Arte, almeno professionale. In altre parole, in quest’occasione i musicisti non hanno versato una stilla di sudore per produrre il disco. O meglio, ha fatto tutto uno di loro, Richie Castellano, l’ultimo arrivato, un tizio che sa suonare tutto missare tutto e smanettare al computer come oggi si usa fare.

Curioso il fatto che, in questo modo, vengono in superficie parecchie canzoni cantate dal bassista o dal batterista della formazione di quel tempo, vale a dire i fratelli Bouchard che infatti, nei primi anni ottanta, mollarono il gruppo contrariati dal fatto che i due boss chitarristi cantanti compositori, Bloom e Roeser, lasciavano loro esiguo spazio da frontman.

Mah… beh… boh… Ma sì, dai! Tale è la mia stima per questo seminale quintetto dalla fortissima personalità e influenza, che accetto questo Frankestein (neanche il primo del resto… anche “Imaginos” del 1988 era un pò artificiale) e lo infilo volentieri nella mia ricca discoteca del Culto dell’Ostrica Blu. Certo che l’album di quattro anni fa “The Symbols Remains” è di ben altro livello.

E quel dodicesimo brano, non “d’epoca” come gli altri, di cui cianciavo all’inizio? E’ la cover di “If I Fell” dei Beatles e se ne sta lì, sola soletta nella sua relativa attualità (registrata nel 2016), a chiudere la scaletta. John Lennon avrebbe da ridire su di essa… meglio la sua. Molto meglio.

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