Per tutti quelli che mi vogliono insultare: ora mi chiamo "Viva Lì" ma il mio vero nome è Poletti Marco. Ricordate? Quello che invia un pacco di recensioni quasi ogni settimana? Bene, sono proprio io.

La svolta rock di Bob Dylan è una sana e lietissima boccata d'aria fresca dopo le canzoni di protesta, belle ma forse un pò sempliciotte musicalmente, dei primissimi anni Sessanta. "Highway 61 Revisited" è dunque l'album della svolta, della definitiva consacrazione, della nascita di un mito oltre che di un glorioso predicatore un pò moraleggiante. Naturalmente, nel 1965, all'uscita dell'album, furono in molti quelli che accusarono Dylan di tradimento e revisionismo. Nulla di più sbagliato: Dylan non ha perso nè un grammo nè un centigrammo della propria sferzante rabbia, della propria ironia, solamente questa volta ha aggiunto un bel pò di musica, molti strumenti e tantissima voglia di stupire (e non di tradire). "Highway 61 Revisited" lascia a bocca aperta anche dopo l'ennesimo ascolto, mentre la voce di Dylan, curiosamente meno nasale e più curata del solito, pronuncia arcignamente frasi e storie di un mondo che ha ormai digerito lo shock della guerra in Vietnam (ma ha sempre cercato di annientarlo, almeno musicalmente) e che, come gli Usa, ha perso purezza e dignità: quando il sogno americano è ormai diventato un incubo, quando gli eroi alla John Wayne sono stanchi e sorpassati, quando le ragazze decidono che è ora di indossare la minigonna e piegare i maschi come per dieci secoli non hanno mai potuto fare, anche un cantore come Dylan si sente in dovere, ci mancherebbe altro, di cambiare musica, buttarsi sul rock, inveire contro la società utilizzando, per la prima volta, l'arma micidiale dell'ironia e del distacco confidenziale. Il rock, quello inventato da Gene Vincent e Chuck Berry, è un genere sul viale del tramonto.

Le classiche chitarre armoniose e fiammeggianti, simbolo di rivoluzione musicale e culturale, stanno ormai lasciando il posto alle batterie metallare e alla chitarre elettriche di Keith Richards e Roger Waters. Il rock dunque, è cosa seria, non è un giocattolone per signorine: è arte, è profumo di libertà, è vita, è sesso, è amore. Ma Bob Dylan no, lui, secondo molti, non sarebbe mai potuto diventare una rockstar. Troppo austero, troppo grigio, troppo silenzioso, troppo fumoso. Chitarra e armonica: come sarebbe potuto diventare una rockstar? Eppure Bob Dylan, sorprendendo un pò tutti (e forse anche un pò sè stesso) cambia look, cambia veste, cambia pelle, cambia vita: sguardo da duro, chitarra e batteria sempre pronti all'uso, talento da vendere e, checchè se ne dica, sperimentazioni e provocazioni, rabbia e voglia di gridare, o meglio, di ruggire, di ringhiare. "Highway 61 Revisited" diventa subito un album fenomeno, un album simbolo: è l'album delle verità nascoste, del cambiamento generazionale, del 1968 che sta arrivando (ma molti non se ne accorgono), della voglia di cambiare, di maturare, di vivere, di crescere dopo essere già cresciuti (in fondo Dylan ha solamente 26 anni). La vita cambia, il rock pure. Il mondo, da quel giorno, non sarà più lo stesso.

Le canzoni presenti nel disco sono epocali, magnifiche, leggendarie, storiche. Basterebbero i primi due minuti di "Like a Rolling Stones" per capire che qui, ragazzi, si sta facendo sul serio. Prima canzone a durare più di tre minuti (per essere precisi, ne dura esattamente sette), piena di chitarre acustiche, batteria indemoniata, contorno di strumenti vibranti e caldissimi. La voce di Bob declama, con precisione, parola per parola, sillaba per sillaba. Il ritornello è contagioso, perfetto, ritmicamente nervoso con punte stratosferiche di follia e gioventù bruciata. La storia di una donna, forse reietta, forse non amata, che vede le pietre rotolare come sta rotolando tristemente la propria inerme (ed esanime) vita è il simbolo più chiaro di un America sconfitta, vinta, ormai piegata dalle catene del capitalismo, in cui i miti nascono alla mattina e sono già vecchi al pomeriggio. L'unico a non passare di moda è Dylan: ci mancherebbe altro. Evidentissime contaminazioni blues e folk (nonchè un pò country) in alcuni saettanti brani di metà album: valga su tutti il pazzariello "Just like Tom Thumb's blues", una sorta di ballata nostalgica e creativa. Quasi imbarazzante, nella propria struggente magniloquenza, il pezzo finale, l'ultima perla di un album che la Storia consegnerà agli onori e alla gloria: "Desolation row". Undici minuti di purissima lucentezza, una sorta di delirio onirico in cui Dylan cita Eliot, Einstein e Pound sfumando note e sogni grazie a mirabili guizzi chitarristici a tratti molto somiglianti a certe opere del primissimo Jimi Hendrix. U

n album dunque perfetto, assolutamente geniale. Sicuramente l'album più curato, e quindi più riuscito, di Bob Dylan. Un capolavoro immortale che, con buone pace di tutti i detrattori e i presunti rivoluzionari, resterà nella Storia della musica e che, pensate un pò, non passerà mai di moda.

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