Sguazza. E vaga. Evacuar gli è amaro in questa oleosa melma. Bobby Conn, il “Poliziotto Svantaggiato”, sguazza nella “boassa”. Il veneto indica bene 5 kg di fumante sterco bovino. C’è un mare di boassa! Siamo nella merda fino al collo. Ma se ci impegniamo possiamo risalire la china. E ritrovarci fra un po’ immersi soltanto a metà.

Antibushiano più che Anticristo, pur autodichiaratosi quest’ultimo, Conn, nato Jeffrey Stafford nel 1967 a New York, ma chicagoense-illinoisiano d’adozione, ha alle spalle una carriera priva di compromessi e di omissis: come cantante ha militato prima in un trio punk, poi in un quartetto prog; come detenuto è stato ospite del carcere del Maryland per frode postale.

Misfatti, mi sa, ne ha fatti. Incita il suo pubblico, la sua generazione per estensione, a far crollare il sistema contraendo debiti a dismisura. B. Conn, a conti fatti, è l’eterno adolescente, il menestrello agit-prop improbo, il predicatore folle che cavalca il vento dell’idiozia; al meglio un sinistro istrione, un disadattato cronico. Abbastanza idiota da apparire geniale. Abbastanza geniale da fingersi demente.

Agile come un ciuffo di paglia, si dimena con indosso la camicia bianca, con tanto di colletto inamidato, e tuta Adidas sopra. Bordeaux. A volte arancio. Tiene in allenamento la sua esigua muscolatura gastrica con la danza ritmica. Con un fare da guru illuminato e inebetito.

Se guardo con tenerezza antieroi come Jad Fair (Half Japanese), Conn mi appare invece sardonico, oltremodo. Inaffidabile. Conn ricorda Sky Saxon dei Seeds nella fisionomia; un po’ anche l'Alex DeLarge di Kubrick. Ma è più un M. Bolan colorato come Ziggy/Bowie. Decadente. Eccentrico. Camaleontico: testa di camaleonte, corpo di camaleonte. Ma non lasciatevi ingannare. Non necessariamente lo stesso camaleonte.

Musicalmente tracima detriti di glorioso passato: Bowie con Abba, T-Rex con Devo, Silver Convenction con Meat Loaf, Prince con New York Dolls, Curtis Mayfield con Slade. S’invischia spesso e volentieri nell’estetica trash. Non nasconde nemmeno i suoi feticismi, il pattino da ghiaccio in primis, specie le lame. Viene esaltato per le sue performance live: supine nella loro bizzarria teatrale. Tronfie e verbose. Un happening per happy-few post-hippy.

“Rise Up!”, Atavistic Records 1998, è un buonissimo disco. Sanguigno, biloso, arty. Un gran pasto di generi, assunti dopo-purga, “come che i fasea i veci de ‘na volta” prima di recarsi a un matrimonio. Così ha disposto glam-punk, avant-funk, power rock, discomusic, spigoli wave, ficcanti boogie-blues, zoticaggine hard rock, alienazioni bossa nova, coretti jazzy, easy listening letterario, archi altezzosi ed oboe lunare; il pop di Conn è sia dolce sia salato. Ma con la disillusione nell’anima.

Quando canta sussurra, mugola in falsetto, ulula. Rigurgita e ridacchia. Convinto o svogliato o affettato.

Parodia l’impero americano e irride la vacuità della macchina dello star system. Depreca tutto ciò che è mainstream.

Frivolo, edotto, cazzaro. È l’artista visionario che sorpassa di molto l’uomo comune, che -in realtà- è.

Molti meriti, di questo “Rise Up!”, li ha la produzione. Putacaso in regia ci sia un vero geniaccio tipo Jim O’Rourke. È proprio lo sperimentatore di Chicago che in bella guisa si affina per il suo “Eureka”. Si spiega così l’eleganza formale che ovunque affiora attraverso l’ampollosità e la prolissità degli spunti melodici e ritmici. Ne vien fuori un album icastico. Grezzo, quando serve, ma raffinato. E non nasconde ma esalta i limiti di Conn, drammatizzandoli.

Nella Chicago cervellotica e post rock di fine millennio, invasata, Bobby il bardo ripercorre, sotto una spinta giovanilisticamente iconoclasta, certe pagine vivide del rock. Detto che John McEntire produrrà i suoi 4 albumi successivi, la massa ignorante lo ignora. Ignora il suo cabaret, nelle occasioni migliori sarcastico e nelle peggiori privo di serietà, che annuncia altisonante l’apocalisse a stelle e strisce. Come Cassandra, ma col tratto più tipicamente conniano: il suo ghigno beffardo e il suo sibilo angelico. Almeno così cessa di stare sulle balle, all’incontrario di quel tizio che si fa chiamare col nome di un’attrice e di un assassino famosi. Poi non è altrettanto opportunista. Né arrivista.

"Ho delle convinzioni/ ma sono tutte fasulle". (Conn)

“Cacar ti farò stronzoli sinopi,/ E duri sì, che 'l cul ti parrà acceso”. (Burchiello)


Anarchico ma non autarchico. Agogna la trasversalità dei generi. Naturalmente non ha inventato nulla. Un primato però lo detiene. Cosa di cui fregiarsi vita natural durante. Conn con la moglie Monika BouBou, nonché fida collega e violinista elettrica, è stato il primo soggetto di coppia dei calchi di gesso di Cynthia Plaster Caster. Già, proprio lei! La mente (ma anche il braccio, quando è necessario) delle Plaster Caster.

-Riconoscimento del ca##o?

-Non solo quello.


Oggi, più morigerato, pare viva a Vienna con la moglie e due figli, ridimensionando certi proclami del suo recente passato, additando i termini di “illusioni egocentriche” e stupide “iperboli”.

Questo è il secondo dei sette suoi attuali Long-Playing. Forse il migliore. Magistrali gli strali glam’n’roll di “United Nations”, tutta un serpeggiare chiastico di epica voluttà punk, e l’hard r’n’r ri-arrangiato glam di “White Bread”, diretto da tanto di ossesso e delirante falsetto. “Rise Up!” è una power ballad che deflagra in una settica mutazione disco; dal compiacimento jazz lounge di "Passover" si va alla sprezzante bossa nova di "Lullaby" dove il Nostro si scopre entertainer confidenziale smorzando risate; “Baby Man (Refrain)” inoltra un falsetto idiota, maccheronico e riuscitissimo tra atmosfere sognanti che richiamano pagine bellissime di Bolan (“Cosmic Dancer”, ”Beltane Walk”, ”Ride a White Swan”).

Si scivola spesso e volentieri nel maquillage kitsch, senza schivarne la svenevolezza. Ma come detto, immersi solo a mezzobusto nella mota. Lasciando un pelo di speranza per il proseguimento del secolo. Risalire. Vellutatamente. Nuotando. Voglia di uscire. Un po’ da snob come Bob-bye; uscir dall’aspro mare. Dal consumismo, se vi pare.

Il Bobby “Fantasvantaggiato” è un poco rompicoglioni. OK. Con torto o ragione, una spinetta sul fianco. Ora lo so. Però “United Nations” spacca. Alla grande. Un vero inno generazionale. Almeno per la generazione X. Ca##o, ci sono dentro! Ca##o, un inno anche alla post-verità. Ca##o! Ca##uto come un calco!

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