Non è per niente semplice parlare di Piano Nights, ottava notturna meraviglia di Bohren & Der Club Of Gore. L’album prende il nome da un’esibizione solista al pianoforte di Christoph Clöser. Un silenzio strisciante attraversa tutta l’opera, uno stato d’animo specchiato su lastre siderali e ghiacciate; una sigaretta fumante per l’eternità su un posacenere senza appoggio. Una camera vuota, fredda e disadorna, nessuna tirannica presenza attorno. Potremo da ora soffrire finalmente solo di noi stessi. L’apatia tossica di Bohren è solita affascinare solo individui in balia di una felice e consapevole depressione, prima azione una doppia mandata alla serratura, dal buco della serratura non si scorge anima viva, attraverso il fumo denso e accecante della camera scopriamo però di avere ricevuto in dono nuove ali. Come in una farsa apocalypse jazz di un Miles Davis ultimo uomo sul pianeta, Bohren continua a germinare la mostruosità di quel sound, ma con uno stile esemplare. La solennità delle ombre, stendendo con maestria quel cielo oscuro su ambient, drone, jazz e noir. Seconda azione darsi un appuntamento con una persona importante al centro commerciale, avere un sentimento puro ma invisibile, il coraggio di affrontare una scomoda verità. Invisibile tra volti sconosciuti ed ombre senza volto in slow motion, afferrare dalla tasca le cuffie ed immergersi nell’ascolto di Irwege, nell’oblio di quel sound da requiem ed esiliati dagli sguardi, in attesa di parole che trovino un senso, rimbalzando tra il muro ed il silenzio di una strada che non concede più sponde. Quella persona che non comparirà, e che scomparirà per sempre, tra quelle note spezzate, tra quella linea di basso così sonante, tra quelle lacrime così lente nella discesa. Piano Nights è immersione profonda planando con ampia apertura alare, scaltra evasione da perimetrali sgusciando dalle gambe dei potentati del pensiero, dai miasmi putridi e contemporanei, una eclisse di luna trafugata. Comprensione innata del linguaggio dei fiori e delle parole mute. Accampati da decenni sulle tende del Jazz Club, con ricordi del luminoso mondo esterno che si affievoliscono di album in album, il sassofono di Clöser che rinasce dopo infinite resurrezioni, dimenticando i vibrati carnosi ed il tocco materico sulle strade della nuova dissolvenza, vuota e sintetica, un abbraccio teso ad un turnover di anime disseminate su marmi ghiacciati.

Terza azione, codificare con Piano Nights novelle narrazioni interiori, offuscare anche l’immaginazione. Dissolversi nel suono di quella visione notturna, condurre l’estetica su un piano artificiosamente mortale, con un battito del polso quasi impercettibile e pompandolo dolcemente con un pizzico di natura morta. Strisciando inesorabilmente in avanti, nella direzione di quel suono disperato e meraviglioso, sulle tracce notturne di Lost Highways, sulla scia di quella strada illuminata solo dai dai fari di quell’auto che viaggia senza sosta.

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