La fotografia livida sembra suggerire un'idea di mondo in cui il senso delle cose è dilavato, sgocciolato via poco a poco come i colori dalla tela di Bong. Un'umanità grigia, distante, inzuppata dalle piogge che bagnano cadaveri di donne stuprate. Una realtà sfrangiata in mille rivoli di incertezza.

In quelle piogge gli investigatori annaspano, alla disperata ricerca di un serial killer ineffabile.

Questa è la cronaca dei loro tentativi. Non tanto la storia di un omicida, racconta più che altro la violenza che può riverberarsi, attraverso chi indaga, su chi subisce le indagini. Un po' come nell'ultimo Clint Eastwood, la verifica della colpevolezza non è per niente indolore. E se nell'America nel 1996 la violenza è tutta mediatica, nell'arretrata Corea del 1986 è diretta e spregiudicata come un calcio volante in pieno stomaco. Sono le percosse e i pugni dalla legge, che non indaga analiticamente, ma procede alla sistematica tortura del sospettato di turno.

Le storture

Bong irride la stupidità dei suoi detective, quando fa dire loro: "In America devono per forza di cose usare l'ingegno, là il territorio è sterminato... Mentre qui possiamo indagare spostandoci a piedi". Come se fosse una questione geografica e spaziale. Come se non servisse acume per indagare, a prescindere.

C'è una carrellata di storture e bizzarrie al limite del comico puro, che sanzionano la sprovvedutezza dei detective e dei loro bracci armati. E pure l'investigatore arrivato da Seul, che sembra più intelligente e dotato, finisce per incapricciarsi ugualmente. Solo usa metodi più raffinati, ma mostra una violenza simile ai colleghi di periferia, nei confronti del sospettato a cui si è più “affezionato”.

Riso amaro

Sorprende, come in Parasite, la capacità di mutuare una gestualità quasi slapstick in un quadro così profondamente drammatico. Tutto (o quasi) ha un doppio fondamentalmente comico. Ma di quella comicità amarissima che racconta la pochezza di una nazione. Una cosa alla Totò, alla Fantozzi, che facendo ridere in realtà fa quasi piangere. Si pesca a piene mani dal linguaggio degli anime.

Con sorprendente naturalezza le vicende di Bong debordano sempre dal tracciato, aggiungono con sana ingordigia elementi di vita concreta al dettato stringente della trama. Dietro ogni maschera c'è sempre un uomo. È un ritratto sociale, anche quando il soggetto non lo richiederebbe. Ed è quasi sempre improntato a una comicità urticante. Le ridicole scopate del detective, i calzini puzzolenti del procuratore capo, la ricerca dell'uomo senza peli pubici, le assurde litigate al comando di polizia. O le risse al bar, le indagini ostacolate dai monelli che scorrazzano nei campi, le memorabili figuracce della polizia davanti ai giornalisti. Inserendo elementi comici al vertice della catena del potere, Bong irride la nazione tutta.

Pudore

La gioia sfrenata nel mostrare l'inadeguatezza delle autorità si appiana e retrocede di fronte alla visione dell'orrore. Il dolore vero, quello degli innocenti, viene sottratto quasi, dato solo attraverso brevi sbirciate. Non si può infierire su dei cadaveri (la storia su cui si basa il film è vera), è vietato spettacolarizzare le atrocità.

E allora i dettagli che tendono al comico (le mutandine in testa, i pezzi di pesca nella vagina) vengono proiettati tutti su chi indaga, isolando il loro imbarazzo inetto di fronte alla perversione della società. Ma quei corpi meritano rispetto. È il mondo intorno a essere incapace di salvare quelle vite.

La verità a pezzi

La violenza investigativa è così spinta da arrivare al paradosso. Le parole dei sospettati non valgono più nulla perché sono prostrate ripetizioni di quelle verità di comodo che i detective vogliono sentirsi dire. Nulla ha più valore dunque e diventa difficile distinguere tra elementi di vera confessione e altri di immedesimazione forzata, nell'anelito di porre fine allo strazio. L'autorità costruisce il suo successo fasullo, lo monta con cura, e si auto-celebra pure.

In questo mondo mistificato dal potere armato, il detective abile è quello che sa distinguere una tesserina di verità nel mosaico di falsi. Un barlume autentico in uno scenario grigio e inaccessibile a chi ricerca vera conoscenza.

Lo spettatore stesso cede alla logica utilitaristica dei protagonisti e di volta in volta crede di aver trovato il colpevole insieme a loro. Quello con la faccia brutta, quello che si masturba nel bosco, quello che richiede la tal canzone in radio. Sono le stampelle pericolanti di una logica illogica che pensa di poter trovare il killer gironzolando a piedi per le campagne.

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