E voi? Quali sono i vostri escamotages per rinfocolare le energie?

Io ne ho diversi, coloriti e multiformi, ma, risparmiandovi tortuose dissertazioni su ognuno di essi, concedetemi di parlare dell’unico infallibile: il Bar Italia.

Nume tutelare di tutti gli scappati di casa della mia città! Indispensabile e (spero) incrollabile istituzione sociale che elargisce alticcio welfare a suon di Bonarda a buon mercato! Filantropo e mamma! Santuario e tana!

E’ forse per la qualità del vino? (bah, mica tanto). E’dovuto all’amenità della location? (non credo proprio). Allora è possibile per le signorine che lo popolano? (mmmh, soprassediamo). No! Ciò che lo rende Il porto franco delle coscienze in tempesta è la qualità degli avventori e la quantità di stili, interessi e storie che racchiude nel suo grembo.

Al Bar Italia tutto si mescola (e si mesce). La tradizione orale dei profeti, dei cialtroni, dei santi e degli apostoli cittadini (passati, trapassati e presenti) passa di bocca in bocca, di bicchiere in bicchiere senza soluzione di continuità e ogni Illuminato che spende un po’ del suo tempo nelle sacre mura del tempio, diventa, quasi suo malgrado, influencer e follower (tanto per usare qualche orrendo neologismo contemporaneo).

Insomma, un crocicchio di vite e di contaminazioni in cui non è raro trovare ventenni col cipiglio marxista-leninista o settantenni attenti alle app di ultima generazione.

La fama di Pasternak in Occidente è dovuta, essenzialmente, al suo primo (e unico) romanzo: quel "Dottor Zivago" che, nel 1958, gli valse un controverso Premio Nobel e che si inserisce in quella grande tradizione russa che narra le vicende di personaggi di fantasia incastonate in architetture storiche realmente accadute (si pensi a “Guerra e Pace” di Tolstoj per esempio, ma anche ai “Demoni” di Dostoevskij o a un romanzo a caso di Solzenicyn).

Ma Pasternak è stato, soprattutto, un poeta.

Queste “Poesie” pubblicate dalla Einaudi, costituiscono un’antologia che abbraccia e setaccia la sua sterminata produzione lirica i cui confini circoscrivono un periodo che si snoda dagli esordi pseudo-simbolisti del secondo decennio del Novecento fino alle crepuscolari ballate composte a ridosso della morte (1960).

Prima di ogni altra cosa, va’ detto che le radici del Pasternak-poeta sono da cercare in quel Futurismo, in quell’avanguardia linguistica che così tanto ha connotato la letteratura russa agli albori del XX Secolo grazie soprattutto a personaggi del calibro di Majakovskij (con la sua veemenza straripante legata a doppio filo all’arte oratoria) o Chlebnikov (con la sua meravigliosa “scapigliatura” e geniale noncuranza).

Si può dire che Pasternak costituisca un’ulteriore faccia della sperimentazione russa con tratti decisamente caratteristici: poesie che prendono spunto dai micro-avvenimenti che la natura offre (la rugiada sull’erba, il tramonto rossastro, il vento che scompiglia i campi di grano), sensazioni sospese a mezz’aria e attenzione rapita da dettagli (apparentemente) insignificanti, stupori primordiali di un novello Adamo che si aggira in un Eden ancora vergine e che ce lo restituisce attraverso trasalimenti olfattivi, tattili, sonori (prima ancora che visivi), piani-sequenza sull’orizzonte falcidiato da acquazzoni e sul cielo tempestato di stelle, riflessioni sull’esistenza umana indissolubilmente fusa agli eventi atmosferici (specchio delle sue palpitazioni e dei suoi cambiamenti) e all’immensità del cosmo (metafora della sua intelligibilità).

Se questa tensione spasmodica verso il mondo naturale non è certo una novità nel campo della poesia russa, è però nuovo il modo in cui Pasternak ne parla: liriche sbrecciate, ruvide, crespe, in cui le parole pesano come piombo e le sorprendenti metafore straniano il lettore portandolo improvvisamente su altri livelli percettivi.

L’importanza che la metafora riveste nella produzione pasternakiana è centrale, tanto che lui stesso dichiarò che “Il metaforismo è la naturale conseguenza del contrasto fra la fugacità dell’uomo e l’immensità dei suoi compiti, concepiti come per un lunghissimo periodo di tempo. Ciò nonostante, l’uomo è costretto a guardare le cose con l’acume di un’ aquila e a spiegarsi con illuminazioni repentine, comprensibili al volo. La poesia è tutta qui”.

Futurista nella forma, ma indubbiamente legato ai romantici (a Tjutcev per esempio) e all’Immaginismo (dunque allo Esenin più bucolico) nel contenuto. Pasternak è un po’ come il Bar Italia: un crocevia di stili, uno snodo cruciale, un ricevitore di tradizioni e un diffusore di novità (in questo senso potremmo quasi dire che sia l’Apollinaire russo).

Come non citare il Simbolismo di Blok tra le sue influenze principali del primo periodo quando le poesie di Pasternak erano decisamente più fluide e le parole si scioglievano nella musicalità del verso.

Come non citare l’Acmeismo di Mandel’stam con le sue immagini precise e completamente a fuoco, ma, mentre le parole che Mandel’stam usa cesellano figure che hanno una nettezza statica e quasi senza peso, quelle di Pasternak producono una sonorità tangibile, materica e, come sassi lanciati in uno stagno, creano un brulichìo di sensazioni a pelo d’acqua, una dinamicità pluri-cellulare innescata dalle onde che si propagano. Se fosse un musicista, Pasternak sarebbe il primo Robert Rich con la sua elettronica “organica”, con i suoi micro-cosmi sonori che si rimescolano e si propagano da un centro ben preciso.

Pasternak, secondo me, ha anche qualcosa di Verlaine almeno per quanto riguarda la capacità di costruire un universo partendo da un nulla, da un balenìo di luce, da una sensazione forse solo immaginata. Se i versi di Verlaine però avevano il pregio di arrivare istantaneamente al lettore, nel poeta russo si rinviene spesso una patina libresca, un afflato culturale che talvolta impreziosisce i suoi componimenti, ma altre volte li penalizza. I mondi che Pasternak ci comunica sono fatti di sensazioni primigenie (preziose di per sé, cristalline, quasi ingenue), e la citazione (o il rimando) colto impreziosisce le liriche quando sono un po’ più lunghe e dunque si incastona in esse come una raffinata dissonanza, mentre penalizza i pezzi più corti appesantendoli troppo e configurandosi a volte come una piatta stonatura.

Ora però mi è venuta sete! Cianciando cianciando mi sono ricordato che è da troppo che non vado al Bar Italia.

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