Quando si dice che in Italia non c'è sperimentazione in musica, che non esiste un sottosuolo musicale all'altezza dei paesi stranieri, in realtà si sta dicendo una gran baggianata... Chi parla in questo modo guarda evidentemente alla sola Italia musicale che viene promossa nel circuito mainstream, all'Italia di Sanremo, della Pausini e di Nek. Altrettanto evidentemente queste persone sono convinte che l'underground italiano sia composto solamente da band di studenti che suonano cover metal alle feste della birra.

L'Italia invece è piena di arte musicale, di sperimentazioni e percorsi personali davvero interessanti (per rendersene conto è sufficiente farsi un giro su MySpace).

Boris Savoldelli si inserisce perfettamente in quella cerchia di artisti che, con la famosa gavetta, si sono creati un linguaggio originale lontano dagli standard della canzonetta italica.

"Insanology", il suo primo album solista dopo anni di progetti sperimentali tra i più disparati, si presenta come un disco unico già a partire dall'idea di partenza. Le 12 tracce che lo compongono sono infatti realizzate con il solo utilizzo della voce, che, con l'aiuto di una looper-machine, crea basi ritmiche, effetti, parti strumentali, canti e controcanti. Anche la struttura dei brani è diversa dal solito, non necessariamente legata al classico sviluppo strofa/ritornello, ma più libera, partendo dall'idea ciclica propria del loop.

La cosa che più colpisce di "Insanology" è però l'eccezionale freschezza che, nonostante tanta sperimentazione, riesce a mantenere l'insieme. L'album risulta infatti incredibilmente scorrevole e la concettualità di base non va a intaccare la piacevolezza del prodotto. Insomma, Boris ha sondato le possibilità della sua voce tenendo però sempre presente lo scopo finale della musica: l'intrattenimento. Ed è intrattenimento (divertimento) allo stato puro quando gioca con le atmosfere caraibiche delle riuscitissime "Mindjoke" e "Insanology", in duetto tra l'altro con la chitarra del grande Marc Ribot (Thom Waits, Elvis Costello), unico strumento presente nel disco.

Secondo il mio parere comunque, è quando mette da parte il gioco che Boris raggiunge le punte massime del suo progetto: nell'emozionante gospel "Bluechild", e soprattutto nelle atmosfere sospese di "In The Seventh Year", il capolavoro del disco, un intenso brano firmato dalla leggenda del jazz newyorkese Mark Murphy.

E' proprio con una frase di Murphy, presente sulle note di copertina, che mi sembra doveroso chiudere questa recensione, a dimostrazione che la scena musicale italiana contiene molto più di quanto si possa credere: "Boris is one of the great undiscovered proponents of simply superb singing and this cd proves it..."

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