Il controverso Boyd Rice ancora oggi fa discutere benchè si sia "ritirato" a vita artistica sicuramente più in penombra: basta andare sul suo sito ufficiale per ritrovarsi davanti un logo che non dà adito a dubbi: una runa racchiusa nel solito serpente che si morde la coda.

Nulla di che stupirsi, considerati i suoi trascorsi e le sue attuali frequentazioni. Dai Death in June a tutti i vari collaboratori collaterali dei progetti di David Tibet e Tony Wakeford, Rice è stato una colonna portante della scena ambient-folk di matrice destroide. Tra rune e profezie politiche, nostalgie del Reich e revisionismi, indubbiamente ha portato avanti con determinazione scelte artistiche non facili, sopravvivendo comunque alle polemiche e imponendosi come figura di riferimento di buon spessore.

Tra l'altro non molti sanno che la famosa Mute Records (quella dei Depeche e di Moby) ha ristampato tempo fa la sua intera discografia. Segno che gli addetti ai lavori hanno fatto valutazioni abbastanza prive di pregiudizi.

Dunque... l'album di cui parlo ora a mio avviso è un ottimo esempio di ciò che Boyd Rice ha saputo fare, in una fase della sua carriera in cui tutto il movimento musicale di cui sopra era all'apice della notorietà e lui - peraltro - si stava concentrando in modo quasi intimistico sui temi prediletti: la Storia e il futuro della civiltà. "Music, Martinis and misanthropy" diventava un manifesto del Rice-pensiero intingendo il pennello nelle sensazioni e nelle emozioni che già avevano caratterizzato la discografia degli amici Patrick Leagas e Tony Wakeford, nonchè dei più beffardi Stapleton e Tibet del progetto Current 93. Con approccio musicale minimalista, ora prettamente folk, ora più marziale, ora anche ambientale, Rice mette in scena le sue omelie a voce bassa, sicura, recitando un tessuto ideologico che a tratti - per quanto sociopolitico - si ammanta di fulgori onirici e romantici.

Intensa la polemica revisionistica, intensa l'atmosfera che suggerisce inquietanti visioni di morte come massimo comune denominatore della storia della civiltà. Cristalline e malinconiche le chitarre che solo negli afflati finali di forti dichiarazioni di "credo" si impennano per poi venire inghiottite dal silenzio. Soffuse tastiere sostengono le parole e i canti tragici dell'amica Rose McDowell, già etera e gotica presenza di molti album dei Current93. E poi orchestre lontane che evocano la Storia recente come in un sogno visto al ralenty.

La misantropia sottolineata nel titolo affiora a tratti, ma prevale uno spirito di calma energia interiore misto ad una sorta di limbo visionario in cui si materializzano fantasmi e precognizioni. La bellissima "Disneyland can wait" è un pezzo significativo in tal senso. Ma anche "As for the fools" e "History lesson" centrano perfettamente il mood dominante dell'opera, alternandosi a momenti più tradizionali e prevedibili in chiave folk (I'd rather be your enemy) e a quelli minimalisti (Shadows of the night).

Insomma... un lavoro non per tutti i palati che va ascoltato senza troppi pregiudizi. Ovviamente più fruibile nella sua valenza sonora nel momento in cui si tralascia di tradursi i testi.... ma francamente (destroidi o no) è un vero peccato disgiungere le due cose, perchè qui la musica è funzionale ai contenuti lirici e solo immergendosi al 100% nei vari brani si riesce a cogliere la coerenza e la coesione artistica e intellettuale di un uomo che attraverso la musica ha espresso realmente tutto se stesso.

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