Sfugge a ogni tentativo di controllo e di catalogazione questo "My Life In The Bush Of Ghosts". La sensazione straniante che si avverte ai primi ascolti crea sconcerto e destabilizzazione: il contrasto che si avverte rende però il tutto unico e irripetibile. Siamo nel 1981, l'ubriacatura punk è ormai al tramonto, si affaccia quel post-punk che tante gioie darà per decenni, la musica "pop" sta per sfornare i suoi figli peggiori, l'elettronica è ormai consolidata in quasi ogni ambiente ma verrà usata in maniera tremenda per un bel pò di anni. E' in questo meltin' pot artistico che il non-musicista Eno e il sofisticato David Byrne uniscono le loro forze per dare al Mondo un disco che in realtà è più un tentativo (riuscito) di creare qualcosa di nuovo, un calderone in cui unire la world-music con suoni più conosciuti, in un processo creativo un pò presuntuoso ma senza dubbio originale. D'altronde non c'è quasi nessun motivo per sorprenderci: stiamo parlando di due musicisti che la sperimentazione la mangiano a colazione imbevuta nel caffè latte.

Un disco che al suo interno ha un continuo scontro fra stili e appartenenze in antitesi fra di loro: Oriente ed Occidente, la pulsione popolare e quella avanguardistica, partiture di chitarre e synth e selvaggi suoni tribali; persino le registrazioni vocali usate nei vari brani spaziano dal predicatore esaltato a voci "normali" recuperate qua e la in giro per il Mondo. Apre "America Is Weating", inquietante, spigolosa, con tastiere che sembrano lamenti umani, un sussulto musicale che viene presto raggiunto da quello che è il capolavoro del disco, una canzone-noncanzone-Manifesto, "Mea Culpa", semplicemente straordinaria nel suo masochista intento di colpirci il più possibile con il suo loop tribale continuo, con le sue voci confuse, con le sue minacce sonore; un pezzo che ha un suo inizio, ma poi resta sospeso e chiedi a Dio (o al destino, o a chi vi pare) di farla durare in eterno. Tutto vorrete, fuorchè finisca. Ma ahimè, finisce, e allora ci perdiamo in "Regiment", un tappeto di synth che evoca i rumori del deserto, la voce della libanese Dunya Yusin accompagnata da un sound funky (grazie a un'eccezionale linea di basso). Ma poi ci sono la frenetica "Help Me Somebody", la quasi blasfema "The Jezebel Spirit" (con la registrazione di un vero esorcismo contrapposta però a una musica saltellante e irridente), la curiosa "Very Very Hungry", esperimento di riproduzione di una notte nella giungla, accompagnata da una voce spezzettata in poche sillabe, oppure "Come With Us", raggelante condanna dell'America più oltranzista e bigotta.

Ce n'è per tutti, nel calderone di Eno/Byrne, e ogni brano è una piccola esperienza a parte. L'album è stato pubblicato in varie ri-edizoni con l'aggiunta di brani, un'operazione che anche se non aggiunge nè toglie nulla al disco, fa percepire l'affascinante tentativo di "aggiornare" l'opera anzichè lasciarla così com'era all'inizio, come se si volesse accompagnarla dolcemente nello scorrere degli anni.

Inutile soffermarsi sull'influenza che il disco ha avuto in una moltitudine di artisti (vi ricordate di un certo Moby, che con un certo album intitolato "Play" ha fatto i milioni campionando voci diverse con stili musicali contrapposti?). Inutile anche constatare che si tratta di un capolavoro assoluto, una pietra miliare che ci spinge a sognare ad occhi aperti, sogni che spesso si trasformano in veri e propri incubi sonori. Ma alla fine, si sa, ci si risveglia sempre.

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