4,5.

A fare i conti con il grigio si può provare una innocente allegria. Oggi condivido la visione del collettivo Broken Social Scene: è come se fossero finiti i tempi dello schizzare angoscia. Siamo tutti un po’ stanchi e abbattuti. C’è rimasta la schiuma alla bocca e siamo in un angolo. Forse per questo è arrivato il momento di tenere la pistola in tasca e non in mano. Oggi c’è un modo diverso che va oltre il sarcasmo o la crudeltà, per fare certi discorsi. Abbiamo ancora una possibilità di vederci nuovi, sebbene frastornati, ma con una retina che irradia colore. Fare i conti con il grigio è una situazione che ti fa venir voglia di mettere una pezza da parati floreale, in onore dei bei tempi, sulla paranoia. Ed è anche un momento che può attivare il sentimento di cosciente e giudiziosa rivolta, in cui congegni un dispositivo dinamitardo riempiendolo di vernici colorate. Il tritolo lo lasci agli americani o ai talebani. Ecco, fottersene, forse, e pensare un po’ a sé e al cosmopolitismo attuale che, soprattutto attraverso la musica, qualcosa di buono e vivace da raccontare pur avrà. In effetti, qui si parla di canadesi. Ah, Toronto, Toronto! Città vivibile, coesa, a meno quaranta gradi quando le dice la testa eppur sempre praticabile, visitabile, fruibile, aperta e funzionante. Niente code, ambienti concepiti per l’uomo, fervore culturale che, al giorno d’oggi, è una specie di miracolo come un fotogramma ritratto da Caravaggio. Lo assicuro. È il luogo del collettivo BSS, ed è una città dove, per fortuna, puoi cogliere tutto ciò che si muove nelle tendenze tumultuose e multidisciplinari del pianeta terra. È un terreno fertile per chi vuole capire quando le borse collasseranno definitivamente, per capire cosa ci sarà dopo il post, per limitarsi al presente e viverlo in pieno, per sentire droni attraversare spazi urbani o per vedere giovani band cavalcare l’onda mentre giovani artisti, nello stesso luogo, performano cose davvero mai viste. A Toronto ti puoi fare un’idea del cinema libero e un’idea dell’arte più sincera. Toronto è un ottimo punto di riferimento per i giovani d’oggi, troppo scemuniti per essere davvero giovani, ed è una fortuna per chi la pratica e vive negli ultimi tempi.

Forgiveness Rock Record è un disco persuasivo e missionario. Una specie di punto di azzeramento. Quel che è stato è stato, da oggi diamo una mano fresca di verde, giallo, rosso e blu anche alla decadenza. Mi è parsa un’iniezione di vigore matura, forse meno estrosa, ma di speranza, di positività rivolta a noi che brancoliamo tra i 20 e i 40 in cerca di alternative che, se ci sono, si manifestano in tarda serata, dopo che hai finito di spaccarti schiena o testa per tutto il giorno. FRR è un disco che ha capito un momento e si pone avanti. Non è didascalico. Non è che ti dica che tutto è una merda e ci sputa e piscia sopra. Non è grigio. Forgiveness Rock Record è il catalogo pantone della serenità, poche volte disturbata, ed in un certo senso eretta a stato di coscienza di cui tutti dovremmo armarci, se non vogliamo impazzire. Rispetto a urla, matematicismi, rumori, cupidume, FRR si presenta come disco melodico di pura e vera alternativa, senza pose. Ne ho amato l’arte, combinatoria, rassicurante, intelligente, che ha colto una interessante via d’uscita da questo appiattimento verso il basso (nel senso di tonalità, stati d’animo, suoni) che ultimamente mi sembra scorazzare tra tanta e tanta musica. Un inciso: grazie a chi scrive su debaser non mi sono lasciato sfuggire alcune ultime produzioni in ambito metal e neofolk (che altrimenti avrei trascurato, per sfiducia) che mi hanno letteralmente pietrificato per alcune virate interessanti verso aperture luminose di generi sommersi da tanta terra scura e macchiata di sangue. Ecco, questi angoli ancora ottusi che finalmente stanno dando un po’ di ossigeno alla musica, parlano dell’intelligenza di determinati artisti che, in alcuni casi – secondo me – volontariamente ed in altri meno, hanno capito che è proprio con la loro arte che si può un cercare di venir fuori da una stasi fangosa che, sinceramente, mi ha un po’ rotto il cazzo, per dirla alla Alcest.

Interpreti di un genere che per antonomasia è libero da vincoli (antonomasia, forse, ormai applicabile solo alla loro musica; per il resto è un’etichetta)  i Broken Social Scene nel 2010 dedicano applicazione indipendente e attitudine a volersi misurare sempre con obiettivi da raggiungere con arguzia. Li hanno bastonati un po’ tutti sia in Italia che all’estero, ma con la solita ipocrisia della sufficienza. Gli si critica il fatto di esser fiacchi, ripetitivi e privi di mordente. So che scrivere cazzate è un mestiere ben diverso dal comporre musica, ma ci provassero loro a fare ancora musica così, al giorno d’oggi.   Per chi conosce gli album precedenti, è un po’ come arrivare già satolli e bevuti alla stessa tavola a cui si è banchettato tante volte. Però la fame c’è e la voglia di bagnare l’ugola pure. E non si resta affatto delusi. Linee melodiche sottili, abrasioni elettroniche controllate, concertazione come la politica non ha neanche idea che si faccia, un ricercarsi degli strumenti e delle voci che sembrano spingersi a vicenda e sbocciare man mano, ognuno protagonista anche nelle sovrapposizioni e negli smembramenti dello spartito. Una delle mie voci preferite del momento e una canzone su tutte, World Sick, che introduce all’ennesimo viaggio pieno di ciccia (14 tracce) che non arriva al massimo solo perché conta un paio di passaggi a vuoto (ora mi viene in mente la traccia 4). Per il resto è tutto marchio di fabbrica, affidabile e garantito.

Broken Social Scene vs. Grey. La big band di oggi, un po’ Grand Funk Railroad odierni un po’ bambini di domani. Ovvero, grandi.

Carico i commenti...  con calma