Il 1967 fu un anno irripetibile. Il rock entrava nella maturità, sfornando una serie stupefacente di capolavori. Il secondo album dei Buffalo Springfield è senz’altro da annoverare in quella élite.
Reggendosi su un asse formato da tre cantanti-chitarristi (Stephen Stillls, Rich Furay e Neil Young), il gruppo era emerso rapidamente nella florida scena folk-rock di Las Angeles. La British Invasion era stata ormai assimilata, mentre i Byrds avevano appena cambiato le carte in tavola elettrificando le canzoni di Bob Dylan, e quello fu certamente il punto di partenza per le scorribande sonore del gruppo. L’omonimo debutto del 1966 aveva chiarito che la materia musicale plasmata era più complessa rispetto alla pur immensa band di McGuinn. In particolare le armonie vocali erano da urlo e crearono il marchio di fabbrica del suono westcoastiano, laddove gli intrecci chitarristici tra Stills e Young in episodi come “Nowadays clancy can’ t even sing”, “Go and say goodbye” e nella celeberrima “For what it’s worth” erano più intensi e variegati, aprendosi alla nascente psichedelia californiana.
Pur nascendo in un contesto interno già tumultuoso – e che avrebbe portato presto il gruppo allo scioglimento – “Buffalo Springfield Again” si rivelò uno straordinario ricettacolo delle migliori avanguardie rock del periodo, un calderone sonoro in cui il gruppo trovò però una cifra stilistica lucida e innovativa come poche. Una delle chiavi per capire i Buffalo Springfield era la amicizia-rivalità in sede compositiva tra i membri del gruppo, un rapporto che come per Lennon e McCartney li portava a superarsi in fase di scrittura. Il carismatico Stills era il leader indiscusso e vergò di suo pugno alcuni classici assoluti. “Rock & Roll Woman” anzitutto, inarrivabile pietra d’angolo del suono “flower power” californiano. Oppure “Hung Upside Down”, folk rock avveniristico che si regge sulle fiondate elettriche dei chitarristi e sulle ficcanti linee di basso di Bruce Palmer. “Everydays”, stupefacente congerie di chitarre distorte e ammiccamenti jazz. Infine “Bluebird”, visionaria ballata folkrock, con intermezzo acustico spagnoleggiante da delirio e armonie vocali non dissimili da quelle di Tim Buckley. Rich Furay era l’anima placida del gruppo. I suoi contributi sono “A Child’s Claim to Fame”, “Sad Memory”, “Good Time Boy”, tenui schizzi dal sapore country.
Neil Young invece era ”l'indiano”, spesso oscurato dalla dirompente personalità di Stills. In “Buffalo Springfield Again” il canadese estrasse però dal cilindro tre numeri che diedero al disco quel quid che lo rende una pietra miliare. “Mr Soul” anzitutto, diamantino omaggio agli Stones, reso singolare da un’ interpretazione nevrotica e asciutta come poche. Affiancato dal produttore Jack Nitzsche, in seguito noto come “Phil Spector in acido”, Young timbrò due superbe composizioni psichedeliche che rivaleggiano coi Beatles di “A Day in the Life” e coi Love di “Forever Changes” . “Expecting to fly”, anzitutto. Malinconica, celestiale e rarefatta, sviluppa una melodia cristallina rafforzata dagli arrangiamenti d’archi. È uno dei brani più influenti di ogni epoca (Mercury Rev, Flaming lips e Grandaddy docent). E poi l’epica “Broken Arrow”, degno suggello al disco. Una superba ballata pianistica, condita da un testo magnifico sull’american dream in cui Neil inizia ad esorcizzare i suoi demoni. Bizzarri intermezzi di marca zappiana e campionamenti puntellano il brano, fino alla coda jazz. Un apice insuperabile.
Riferendosi all’epoca dei Buffalo Springfield, Young avrebbe in seguito cantato “back in the old folky days/the air was magic when we played”.
In effetti, più che da canzoni, “Buffalo Springfield Again” sembra composto da incantesimi.
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