Tra le stelle più brillanti del firmamento della musica indi(e)pendente dei 90's, vi è sicuramente quella di Doug Martsch che, dopo aver militato in piena grunge-era nei Treepeople di Seattle, formazione che scimmiottava giganti come i compianti Replacements di Paul Westerberg senza riuscire mai a trovare una propria identità definitiva, scrisse con i Built to Spill, da lui formati nella natìa Boise (Idaho), tra le pagine invece più personali ed autentiche del decennio. Sorta di controparte contemplativa e spirituale del suo nome tutelare, J Mascis, Doug Martsch riprese il suo chitarrismo nevrotico, ma a nervi distesi. Quei terribili maelstrom di feedback, distorsioni e dissonanze potevano ora fluttuare liberamente in labirintiche suite psichedeliche o dilatarsi in jam interminabili, secondo i precetti degli antichi maestri di decostruzione (Captain Beefheart, suo artista preferito; Syd Barrett; Velvet Underground). Non è onanismo, nel caso dei Built to Spill, parlare di post-psichedelia.
"Ultimate Alternative Wavers" (C/Z Records, 1993), loro esordio, è un grande manifesto d'indecisione. Lo stile di Doug Martsch, ancora acerbo, è ancora in bilico tra il chitarrismo atonale di matrice Sonic Youth ("The First Song") ed i crescendo in maggiore à la J Mascis ("Built to Spill"), anche se il vuoto postosi tra questo dubbio è ampiamente colmato dalle due imprevedibili jam di "Shameful Dread" e "Built Too Long", che ricordano più il modello sgangherato e selvaggio dei primi Flaming Lips, che le suite colte e forbitamente ornate di cui diverranno maestri nei dischi successivi. A tratti, sembra che le canzoni di questo loro debutto siano quasi pervase da una fretta di esibire ogni declinazione del loro spettro, dalla filastrocca folk di "Lie for a Lie", all'atmosfera introspettiva di "Get a Life" che si schiude poi nella psichedelia statica di "Hazy", dal vago sapore bucolico, senza però giungere ad un'efficace messa a fuoco di quest'ultimo. Forse per questa tendenza alla dispersione è un esordio piuttosto sottovalutato, ma capace già di mostrare tutti i crismi della loro originalità, nonchè contenente il loro primo classico. "Nowhere Nothin' Fuckup", infatti, è una ballata elettrica in puro stile Neil Young, con un testo semi-rubato da quella "Oh! Sweet Nuthin'" scritta da Lou Reed nel lontano 1970, che diventa presto loro cavallo di battaglia nelle esibizioni dal vivo e inno generazionale di tutti i loner/loser d'America.
Se, successivamente, i Built to Spill toccheranno le loro vette formali nell'indiscusso capolavoro di "Perfect From Now On", qua è invece racchiusa la proverbiale urgenza espressiva d'ogni esordio. Doug Martsch, ancora indeciso tra acustico e distorto, tra nevrosi e contemplazione, tra rumore e quiete, attraversa qui lo stadio embrionale della sua successiva supernova, capace di fondere tutti questi fattori in un unico amalgama. E noi, più da amanti di indie-rock che di geografia astronomica, non possiamo permetterci di non seguire un fenomeno di questo calibro dal suo inizio alla sua fine. Insomma, questo "Ultimate Alternative Wavers" è un ennesimo must-have per tutti quelli che quel "Just gimme indie rock!" se lo tatuerebbero sul bicipite.
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