Il suono dei Built To Spill è, senza ombra di dubbio, tipicamente ‘90s: di quel periodo, infatti, loro sono uno dei gruppi che più ne hanno portato avanti, nei decenni successivi, lo spirito, attraverso la qualità sorprendente delle loro produzioni (almeno un paio di loro capolavori negli anni ’00: “You in Reverse” del ’06 e “There is no Enemy” del ‘09) e attraverso il suono di “quelle” chitarre ovviamente, un suono che scava in profondità, un suono luminoso, come un arcobaleno dopo la pioggia.
Nel 1997 esce quel capolavoro di “Perfect from Now On”, destinato a rimanere probabilmente il loro apice incontrastato: perfetta rappresentazione del loro suono, il disco del ’97 fu fondamentale per la loro evoluzione, prova ne è che un Doug Martsch alla ricerca di un’ispirazione che non sembrava volesse arrivare (dal precedente “There is no Enemy” a questo “Untethered Moon” passano infatti ben sei anni), decise di risuonarlo live per intero con la band, durante il loro penultimo tour e mi piace pensare che proprio durante uno di quei concerti l’arcobaleno di Doug ricominciò a risplendere nuovamente, nonostante (o forse anche perché) la loro storica sezione ritmica (Nelson e Plouf) diede forfait più o meno nello stesso periodo e al loro posto arrivarono due giovani roadies (Albertini e Gere), che probabilmente contribuirono alla “rinascita” del gruppo con la loro forza propulsiva.
“Untethered Moon” è, diciamolo subito, un disco solido, ispirato, suonato con le viscere e sfiora di pochissimo l’ennesimo capolavoro: la partenza è bruciante (l’attacco di “All Our Songs” riporta alla mente, per intensità, l’apertura di “You in Reverse” del ‘06 con la memorabile “Going Against Your Mind”) e sostanzialmente non lascia un attimo di tregua, con pezzi che rispecchiano perfettamente quello spirito Alternative tipicamente ‘90s (“Living Zoo”, “Some Other Song”, “Another Day”), atmosfere lisergiche (“On the Way”, “So”), sapienti concessioni pop (la deliziosa “Never Be the Same”, “Horizon to Cliff”) e il buco nero (con via d’uscita però) degli otto minuti e mezzo conclusivi di “When I’m Blind”, che è un vortice, una tempesta di chitarre in combattimento da cui se ne esce esausti, ma vittoriosi, nonostante le ultime parole del testo recitino quel“What is wrong with me?” che Cobain urlava in “Radio Friendly Unit Shifter” e che Coxon ripeteva come un mantra in “What’ll it Take”: il fatto che tre degli artisti musicali 90’s che più mi hanno influenzato siano accomunati da una frase che spesso risuona anche nella mia testa è una buffa coincidenza che mi ha sempre affascinato e divertito.
“And I found a place / Where I know I'll always be tethered / And I knew when I woke up / Rock and roll will be here forever”
Carico i commenti... con calma