Nel giorno in cui mi imposero il silenzio, iniziai ad ascoltare.

Fortunatamente quest'ultima è un'arte che tocca tante creature dello scibile umano, cosicché in breve mi fu facile imparare ad ascoltare tanti nonsilenzi come il sibilio del neon, la canea notturna, l'odore delle braci accese. Ed imparare ad ascoltare la persistenza.

Nella squadrata ordinarietà di una stanza collocata per sua natura al di fuori della meccanicità del tempo, si poteva imparare ad ascoltarla la persistenza, senza avere la presunzione di viverla, definendone i contorni proprio in quello spazio morto che negava il movimento e l'affezione. Gli ingredienti del mio essere transeunte in quella stanza erano i soliti: un canterano consunto ereditato da qualche vecchio trasloco, una scrivania sommersa di prove di stampa e cd vergini, un letto senza testiera e gli stralci sbiaditi affissi sull'armadio con le immagini degli idoli sportivi del momento.

C'era la segreta speranza che un giorno il tempo sarebbe penetrato nelle pareti di quella stanza sbilenca per farla fluttuare nell'etere come un ipercubo.

Io sono l'abitante ultimo dell'isola più remota della Terra e mi sono premurato di agganciare al solito jeans di due taglie più grandi il mio vecchio lettore CD, la cui ostentata modernità sembra rompere la monotonia grigia dell'arredamento, risintonizzandola su una sfumatura più incarnata. L'ascolto di questa notte è "Rival Dealer", un EP di solida esperienza di William Emmanuel Bevan, in arte Burial, dalle sonorità promiscuamente sospese tra qualcosa che potrebbe ricordare l'ambient e un'evoluzione del dubstep. Ma le etichette in questo caso sono molto labili. Accendo il lettore ed è una bella attesa sentire il CD prender velocità richiamando alla mente la naturalezza che risiede nel meccanismo di ciò che genera il suono. In quel momento esatto i contorni si sfocano.

Mi piace pensare che l'inizio sia simile all'avvio a singhiozzo di un locomotore, con quell'"I'm gonna love you more than anyone" ripetuto come un mantra tibetano per tutta la durata dell'incipit, quella title track che fa una chiara dichiarazione di intenti soffiando nelle orecchie una polvere impalpabile che spilla via ogni residuo di assenza. In un attimo le pieghe convesse della mia stanza si riempiono di un luccicante magma scuro, e perdo un po' la percezione di ciò che mi circonda, cosicché alla fine lo sguardo si rivolge per forza di cose al mondo esterno ove non visibili, sembrano ancora più marcati il sibilio del neon, l'abbaiare dei cani e l'odore acre delle braci scoppiettanti. La mia resilienza non è ancora stata vinta, ma mi sento già annientato. "Hiders" è come una lama di luce bianchissima che cura le ferite e fende la scura pece dell'incoscienza redimendone la natura accidiosa e vile. Il sibilo del neon è fragore, la canea è schiamazzo, l'odore delle braci è un balsamo anestetico.

Nel mio incerto incedere nell'isola che credevo felice nel suo statico rigore, mentre "Come Down to Us" fa il suo lungo percorso, per la prima volta decido di spezzare le catene che mi ancorano al mio scranno di spettatore assente: con un gesto deciso batto le nocche scabre sul vetro della finestra e lascio finalmente che il tempo esondi nella stanza. La quarta parete è abbattuta: posso finalmente vedere quelle luci al neon e gli occhi neri dei cani e le braci calde divampate in fiamma. E le transumanze. E i covoni. E la persistenza.

Le mani non sanguinano più. A distanza di anni da quell'epifania che fu l'irruzione del tempo nella mia vita, guardo le braccia sferzate dal vento e le cicatrici sulle ginocchia. Mi guardo intorno e oggi come allora "Rival Dealer" è un ascolto che si prende cura di me. Tutto come e più di allora, col tempo che si stratifica lento sulla soglia e muta le cose. Ma una cosa è sfuggita via dalla memoria e non c'è più. E non ritornerà.

Non c'è più la mia stanza.

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