Spulciando tra le fin troppo affollate pagine della Storia del Rock si possono trovare le situazioni più disparate. Si possono trovare gruppi che con una discografia complessiva di 40 minuti di durata condensati in 26 canzoni codificano e danno il via ad un genere che a vent’anni di distanza gode ancora di ottima salute e vasto seguito; gruppi che in 25 anni di longeva carriera riescono a tenersi stretti i fans pubblicando meno di un disco ogni cinque anni; gruppi che non hanno mai fatto e non faranno mai concerti, per esempio perché sono formati da un solo membro, che magari è perdipiù rinchiuso in galera per omicidio… e poi, molto più umilmente, ci sono gruppi poco – o perlomeno non abbastanza- conosciuti, che hanno sempre suonato con onestà e passione, e hanno esercitato sulla musica che li ha seguiti un’influenza molto maggiore di quella che la scarsa risonanza del loro nome potrebbe far credere. Si possono trovare molti esempi dell’ultimo caso, ma in assoluto quelli che mi stanno più simpatici sono i Buzzcocks.

Mi stanno simpatici perché sapevano suonare il giusto e si ricordavano di accordare gli strumenti quasi sempre; perché la voce di Pete Shelley era a volte al limite della stonatura e a volte oltre; perché erano capaci di suonare una sola corda a vuoto della chitarra e fartelo sembrare un riff vero. Ma soprattutto mi stanno simpatici perché i loro dischi ti dicono “Ehi, suonare è facile! E ci si diverte un sacco!”.
Questo messaggio, che in teoria è un po’ quello di tutti i gruppi (a vario titolo) definibili punk, con i Buzzcocks arriva ancora più spontaneo e diretto. Ti dicono “ma a cosa serve saper fare il tapping con le gengive se con tre note di chitarra (non accordi, NOTE!), un giro di batteria sui tom e un assolo di chitarra che anche mia zia saprebbe fare, puoi mettere su dei brani sopraffini come 'Fiction Romance' o 'Promises'?”. E’ vero, è la stessa cosa che ci hanno sempre detto anche i Ramones, i Queers e giù giù fino ai Lurkers o i Groovie Ghoulies. Ma metteteci in più anche una deliziosa e mooooolto inglese velleità proto-pop, ed ecco saltare fuori i Buzzcocks. Perché qua, oltre a macinare accordi su accordi, alzare al massimo la distorsione del Marshall e accelerare il più possibile il TUM-PA TRRRRUM-PA della batteria, c’è qualcosa di più. O meglio, di meno! Qua si gioca per sottrazione. Qua la distorsione si abbassa, la velocità si dimezza, c’è tempo per “arrangiare” qualche armonia in più qua e là, con qualche nota singola di chitarra messa ad hoc, a sottolineare o a contrappuntare la melodia.
Se i Blur fossero stati loro contemporanei, i Buzzcocks sarebbero stati i “cugini poveri” che, per sopperire a carenze di tecnica e produzione, avrebbero dovuto fare affidamento solo su di una grande dose di buon gusto e molta cura nel cesellare piccoli brani fatti di niente. E ci sarebbero riusciti alla perfezione.

Questo live è il loro documento che preferisco, probabilmente perchè raccoglie insieme tutte le loro canzoni più da leccarsi i baffi, tra cui la storica “What do I get?”, risuonata anche (con un suono un pò troppo da “Marshall overdrive con compressore”, per i miei gusti) dai Prozac+, e soprattutto “Everybody’s happy nowadays”, con una melodia malefica da quanto ti si appiccica addosso, come una BigBabol alla fragola. Ma lo preferisco anche perché qua manca del tutto quell’aria (comunque poco) più patinata delle loro produzioni in studio. Qua sembra quasi di sentire le dita strusciare sulle corde tra un accordo e l’altro, le bacchette colpire per sbaglio il bordo del timpano nel bel mezzo di una rullata. E’ un disco ancora vivo, puzzolente, che ti alita sul collo!
Ma è anche vero che non “sono solo canzonette”. Perché in questo disco del 1979 (e in generale un po’in tutti i loro lavori dell’epoca) c’è praticamente tutto –o quasi tutto- quello stava succedendo e che sarebbe successo in Gran Bretagna perlomeno nei dieci anni a venire. Il riff che apre “Autonomy”, con la sua batteria meccanica e ossessiva e la chitarra spersonalizzata, si porta dentro la “dark wave” di Joy Division e Sister of Mercy; “Noise Annoys” e “Promises” suonano più pop punk all’inglese (vedi Ash); “Have you ever fallen in love…“ è il brit-pop ante litteram; qualsiasi cosa nella musica dei Buzzcocks suona come qualcos’altro che, il più delle volte, è venuto dopo.

Riscoprire questo gruppo che la storia ha lasciato in posizione un po’ defilata può solo far bene, perlomeno per ricordarsi che Manchester non è stata solo la patria dei (grandissimi) Joy Division, degli Happy Mondays e - purtroppo - degli Oasis. E perché il peso che hanno avuto sulla musica a seguire è stato enorme. Ma forse a loro non piacerebbe nemmeno sentirselo dire, e preferiscono rimanere così, in secondo piano; in fondo, come loro stessi si definivano, si trattava solo di “four people from Manchester who just make music”.

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