Mi rendo conto che è puro egocentrismo quando una ragazza dell’organizzazione mi si avvicina per richiedere indietro il pettorale; non l’ascolto nemmeno e mi permetto il lusso di pagare 20 €. (uno sproposito) di cauzione per poter portare a casa il ricordo tangibile e sfoggiarlo come lo scalpo di uno yankee. Il solito sfigato del cazzo che non riesce a godere di un successo personale senza bere il consenso altrui. Pagherei per avere il patetico video che mi immortala mentre, pieno di acido lattico, mi muovo goffamente strisciando come un verme per fotografare quel pezzo di tessuto sul tappeto di casa da ogni angolazione possibile ed immaginabile. L'egocentrismo dell'essere umano è vomitevole! 

Realizzo che quei km sono anche una fuga dalla quotidianità che mi schifa e mi lascia indifferente con le sue cazzate, i suoi discorsi retorici e le serate piene di fumo che fanno rimpiangere quegli amici che hanno messo al dito l‘anello e sono infine scomparsi senza aver letto neppure una pagina di Tolkien. L’impagabile solitudine di uno sport tra sassi, animali e silenzio, con un battito impazzito di cuore come tambureggiante colonna sonora.

Un foglio di carta quando fa l’amore con una fiamma di un accendino assume le fattezze di una mano che si chiude e quel pugno nero ero io a pochi metri dallo striscione di arrivo. Incapace di respirare a pieni polmoni, tanto gelida era l’aria che avevo inalato, incapace di bere una birra (cazzo ero proprio morto!) generosamente offerta da un ragazzo veneto. Mi ricordo quel giorno in cui ho visto passare quella fila di persone di corsa-camminata veloce, poco sopra il Passo Pordoi tra due ali di folla. A bocca aperta gli ho offerto la mia ammirazione sotto forma di sguardo e contemporaneamente avevo già deciso che alla prossima edizione ci sarei stato anch’io. Ho sempre fatto vari sport e sebbene non abbia mai avuto i numeri per svettare mi è sempre risultato facile apprendere e non essere mai un peso e una barzelletta. La genetica mi fornito una buona coordinazione, 7 litri di capacità polmonare e 45 battiti a riposo: e allora mi sono detto corri Forrest, cazzo, corri! 

Porsi un obiettivo, alzare l’asticella ogni anno è sempre stata una cosa che mi ha affascinato; una sorta di lotta contro la routine della grigia quotidianità e un qualcosa capace di lenire la competitività agonistica che mi è sempre accompagnato da quando ero alto come un comodino. E’ così che mi sono ritrovato ansimante e senza più energie sul traguardo del KIMA. I partenti sono poco più di 150, ma sono solo una quarantina quelli che sanno a cosa vanno incontro: io, con i miei allenamenti fai-da-me, non sono tra questi. Mi accodo tra gli ultimi ed ho ragione visto che alla fine la metà non giungerà al traguardo o non riuscirà a passare i severissimi cancelli orari imposti dal regolamento, pena l'esclusione. Non mi sono mai cimentato in una distanza così assurda (50 km) e soprattutto un dislivello di sola salita così imponente (quasi 4000 metri) e so per certo che se mi farò prendere dall’entusiasmo quando mi parrà di stare bene, verso la metà, finirò la benzina ed i crampi ed un conseguente infortunio in discesa diverranno fin troppo reali. Per 30 km il percorso si sviluppa su una morena: enormi sassi di granito semoventi di un ghiacciaio ormai sciolto, in un ambiente lunare di rara bellezza. Mi fermo a tutti e 13/14 rifornimenti per assimilare bene sali minerali, frutta, acqua, cioccolata. Ma quello che mi preoccupa sono le catene (una sorta di facile via ferrata) che ti fanno scendere dai 7 passi che si devono oltrepassare. Non hai un imbrago e quello che appare banalissimo, può diventare assai pericoloso se arrivi in questi punti senza la necessaria lucidità. Quando la scarpetta incontra infine la strada asfaltata rivedo una parata a mano aperta, un canestro con fade-away, una schiacciata nei tre metri, una demi-voleé di rovescio e vattelapesca. In qualche modo ormai, lo so con assoluta certezza, il traguardo verrà tagliato. Poco importa se il primo potrebbe essere già tornato in Spagna. Questa gara la possono portare a termine davvero un numero ristretto di persone.

Quando rincaso e mi impongo altri 20 minuti di stretching metto i piedi sfatti sul letto: sono quattro le unghie che perderò di qui a 2 mesi; il colore è una sentenza. Un paio di capitoli e poi, prima di chiudere gli occhi, sale quella tiepida tristezza che mi si attorciglia addosso come edera rampicante e che è quello che ricerco costantemente e che mi riscalda quando torno da una traversata, un ghiacciaio, una cima, un viaggio, un libro, un film, una serata tra amici. Quella sensazione che mi entra dentro quando finisce una bella cosa e che mi fa venire la voglia di imbattermi in un’altra; la spinta che mi fa muovere il culo dal divano e che mi spinge ad essere una spugna e cercare di rinnovare gli interessi e gli obiettivi. E’ probabile che da qui alla tomba ne praticherò altri, di sport, ma fino a quando le ginocchia, il fiato e le caviglie reggeranno troverò il tempo per una corsa al tramonto o all’alba tra i sassi dei miei monti pieni di silenzio: il modo migliore per scaricarmi di tutte le tensioni e trovare quella sensazione di benessere e soddisfazione che ti fa sentire vivo, vivissimo, quasi bruciare.

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