Questa di cui mi appresto a scrivere è la seconda grande uscita del 2009, comprendendo, per sommi capi e parlando del (quasi) medesimo ambito Doom, anche “For Lies I Sire” dei My Dying Bride che ancora, a giudizio di chi scrive, deve essere ben “digerito” per poterne dare un giudizio obiettivo. Ma, del resto, avendo a che fare con un genere che per proclamata ed accertata filosofia non è mai “facile” ai primi ascolti, questo non è un male. Anzi.
Per quel che conta la mia limitata esperienza in materia, sono proprio gli album non troppo orecchiabili ai primi ascolti a riservare, poi, belle sorprese. Certo, questo è una specie di piacere che richiede pazienza e perseveranza per poterlo apprezzare appieno.
Oppure no. Non è così, e un disco lo si dovrebbe apprezzare già da quando, magari, si è ascoltata qualche nota, pure in lontananza, pure magari accennata. E allora si tratterà di album che entreranno nella testa e li si ascolterà decine e decine di volte, poi verranno abbandonati e poi, col passare del tempo, li si riprenderà in mano e li si riascolterà di nuovo, riscoprendoli ancora una volta, e così all’infinito.
C’è anche il terzo caso, invece, dei dischi che sono entrati nella storia; che contengono canzoni immortali che non potranno mai essere dimenticate, e ogni volta che li si ascolta, si coglie un dettaglio nuovo, una sfumatura diversa. Di questi ultimi, però, per onestà bisogna dire che non si può mai asserire con certezza se ne siano stati pubblicati pochi o molti, poiché i gusti, è chiaro e banale come il sole, sono materia soggettiva e non oggettiva, e dunque ognuno di noi avrà un suo disco, o più probabilmente, una sua serie di dischi a cui è legato particolarmente e che, secondo il metro di giudizio di ognuno, possono essere reputati come capolavori.

I Candlemass, a mio giudizio, rientrano in tutte e tre le categorie che ho citato sopra. Ma questa non è una novità. Almeno non per me.
Ormai alfieri di un genere che loro stessi hanno contribuito a strutturare e a cementare grazie alle loro opere passate, oggi, dopo che già dal precedente album (se si esclude la loro raccolta "Lucifer Rising"), avevano rimpiazzato il loro “pezzo da novanta” Messiah Marcolin, dotato di una voce potente, melodica e drammatica, difficilmente riproducibile e replicabile, con il cantante attuale Robert Lowe proveniente dai Solitude Aeternus, dotato di un timbro più grezzo e ruvido e comunque diverso da quello di Messiah, ma non per questo meno potente ed espressivo, danno alle stampe questo “Black Magic Doom”, che, anche se, per ipotesi, mettendo le mani avanti e bestemmiando, si dovesse trattare di una "bruttura", porta un titolo che certamente ne riassume in tre parole il significato che se ne può discernere.
Ma qui ho bestemmiato, e per non abusare della pazienza di chi legge, dico adesso che questo album non è una bruttura, ma, pur non dovendo mettere il carro davanti ai buoi prematuramente, trattasi di quello che si può giudicare come un disco “da manuale”. Anzi, diamoci pure qualche aria e prendiamo un profilo più alto: del disco del quadrimestre.

Era prevedibile, del resto: la classe non è mai acqua, e i Candlemass ne sono esempio lampante. Dopotutto che cosa ci si può aspettare dai Giganti, se non che debbano pubblicare opere mastodontiche? E “Black Magic Doom” è un’opera mastodontica. Non per la sua durata, intendiamoci, ma per il suo contenuto eccezionale.
Qui non ci sono canzoni “di riempimento”, non ci sono “hit” da dover incorniciare più delle altre: ogni canzone è un episodio a sé stante, e richiederebbe una recensione a parte, ma sarebbe comunque tempo sprecato e banda consumata. Basta, in questo caso, parlare del minimo comune denominatore che le attraversa e le rende omogenee per quano riguarda certi specifici aspetti: la potenza del suono, che non è “poi così perfetto” ma che dona quel qualcosa in più d’atmosfera plumbea e paludosa che è il marchio riconoscibile da lontando del gruppo; la prestazione vocale del cantante che, a volte può sembrare anche un pò forzata ma che invece, si capisce dopo poco che è stata studiata apposta per apparire e farsi ascoltare proprio in quella maniera; i ritornelli orecchiabili, quelli sì, ma che comunque si innestano alla perfezione nella struttura strumentale delle canzoni che orecchiabile non è, ma che anzi a volte si lancia in intrichi melodici sfuggenti che appaiono e scompaiono; e, per ultimo, gli inevitabili richiami ai maestri precursori del Doom di tale matrice: Black Sabbath era Ronnie J. Dio su tutti, come pure St. Vitus, e Valhalla vario.

Proprio quest’ultimo è l’aspetto più interessante da approfondire per quanto riguarda questo album: i richiami al gruppo di Toni Iommi sono palesi, come è probabilmente giusto che sia, e prendono due direzioni: una strumentale e quindi strutturale delle canzoni, ed una concernente le linee vocali che, in certi momenti, non stonerebbero proprio per nulla se fossero eseguite da Ronnie J. Dio in persona, appunto.
Questo però, lo voglio ripetere, non è un difetto ma semmai un pregio: come si può dir male dei Candlemass quando loro stessi hanno sempre reinventato e proposto a distorsione e a miglioria alchemica la base del costrutto Doom non di certo di loro esclusivo retaggio?
Non si inventa nulla dunque qui, piuttosto si rielabora, si sporca un pò, si imbastardisce ancora e lo si rende più cupo ed epico. Quello che ne risulta è un lavoro che usa prendere una direzione del tutto particolare e certamente affascinante, a volte classica, come in “Hammer of Doom”, grazie anche, per dirne un’altra, agli inserti tastieristici mai marcati ma intelligentemente piazzati e velati nei momenti giusti per sottolineare ancora di più, di volta in volta, l’epica o la tragicità o il dolore che scaturisce dalle note. Ne è un esempio plateale “Clouds of Dementia”, per finire.

Dunque Signori e Signore, con le orecchie allenate, ma nemmeno necessariamente troppo, all’incedere Doom, qui ci troviamo al cospetto di Maestri che sanno benissimo quello che fanno e quello che vogliono ottenere. Senza nessuna esitazione. Abbiatene gusto.

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