Come per quasi tutti gli artisti di quei tempi, un anno era più che sufficiente per intervallare un'uscita discografica dall'altra. Il risultato spesso lasciava di stucco, poiché evidenziava stati di grazia compositivi, in tempi diversi da quelli praticamente irripetibili: capolavori l'uno dietro l'altro, dischi doppi, tripli, quadrupli, lavori coraggiosissimi, sperimentazioni, ambizioni di anno in anno sempre più alte. Il filone aureo, però, prima o poi deve pur esaurirsi, e da qualche parte ci si deve fermare a riposare. Ai Canned Heat tocca il primo passo falso nel 1970.

Mentre la copertina di questo disco si può considerare riuscita, e colpisce l'immaginazione (come vedeva il blues del futuro una band che oggi appartiene al passato?), l'ascolto di questo disco delude non poco. E non solo perché di blues "moderno" non ce n'è abbastanza: quello si capisce subito, e basta infatti l'opener "Sugar Bee", quattro parole ed un boogie senza spunti, per capire che l'album non manterrà le promesse di innovazione.

La vera delusione, dicevamo, dipende dalla qualità dei brani qui contenuti: non solo blues non futurista ed alle volte nemmeno futuribile, ma neppure buono. E certe volte neppure blues, come il mezzo rockabilly di "Shake It And Break It", od il mezzo rock n'roll anni '50 della conclusiva titletrack.

"So Sad" è un blues molto forte ma che pian piano perde vigore e si salva quando la chitarra si prende il potere, e "Let's Work Together" è un ottimo mix tra boogie e surf, quasi un pezzo doo-wop rockettaro degno dei Bay City Rollers o dei Rubettes: t'attenderesti sentire un coretto di eunuchi da un momento all'altro, ma non si arriva mai così in basso.

Ritengo che il blues del duemila, il blues di adesso, sia già tutto quanto dentro al precedente "Hallelujah", per motivi legati a strutture, metriche, sonorità, coraggio esecutivo e gusto. Quello della storia, invece, è in "Canned Heat" ed in "Boogie With Canned Heat", mentre quello del '68 è presente in "Living The Blues". Quello invece dentro a  "Future Blues" è solido, standard , senza sbavature ma privo al contempo di guizzi. Niente suoni nuovi, niente sorprese, addirittura uno skat accompagnato da una sezione fiati, manco fossimo alla House Of Blues in una di quelle inutili serate di gran gala, ad assistere alla solita esibizione della novantenne col parruccone e l'abito argentato tutto lustrini.

Un passo totalmente sbilenco, un'involuzione, un deciso salto all'indietro  tra le pagine del libro di questa storia, e di non pochi capitoli.

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