Il 1970 è l'anno in cui i Canned Heat "si sdoppiano". Non è solamente perché quell'anno pubblicarono due dischi (così avvenne pure nel '68), bensì perché parvero piuttosto prendere, con le loro due pubblicazioni, direzioni concettualmente opposte l'una all'altra. Tutto ciò s'evince già dai titoli: "Future Blues" uno e "Vintage" l'altro. Sin dal concepimento, sin dall'ideazione, dunque, i Canned Heat pensarono di arrivare ai poli opposti, a visualizzare il futuro ed a riproporre paro paro, quasi ricreare in sala d'incisine, il passato del blues.
E se il passato è passato, come si suol dire, perché non cominciare da pezzi che, oltre ad appartenere alla notte dei tempi del blues, sono anche presenti nei loro primi dischi? Passato del blues e passato dei Canned Heat: tutt'e due al contempo in due canzoni. "Big Road Blues" e la celeberrima "Rollin' And Tumblin'" sono i brani in questione, riproposti ovviamente in chiave più fedele, in veste retrò, o forse è meglio dire incontaminate dal sound d'allora. Ne viene fuori che "Big Road Blues" somiglia ad uno di quei vecchi (e tanti) padri del rock and roll, e che "Rollin' And Tumblin'" torna ad essere blues campagnolo.
Se l'operazione "Future Blues", come abbiamo già visto, si rivelò un'occasione mancata, meglio va a finire per "Vintage", un disco che ha il pregio di non avere fronzoli, di non avere velleità se non quella di suonare come avrebbero suonato i padri ed i nonni del genere. Una falsa ambizione, per una band di quelli che a vent'anni, e sin dal primo disco, parevano veterani.
Dunque ti imbatti nel blues rock eterno (e catchy) di "Dimples", nel tradizionalissimo superboogie "Can't Hold Out", nell'ennesima blues ballad "Louise", nata per cimentarsi nelle solite lunghissime, legnosissime note di chitarra tra i versi. Eppoi vi sono dei pezzi talmente scarni, scheletrici, senza condimento, che non possono non convincere l'ascoltatore.
L'intento di essere veramente vintage porta i ragazzi imbarattolati a raggiungere livelli e gusti arrangiamentali al di fuori del tempo e delle mode. Come tutto ciò che è vintage, però, lo fanno solo "fintamente", "per moda". L'impressione è che stia girando un disco anni quaranta, sin dall'opener "Spoonful", sia nel boogie lestissimo di "Got My Mojo Working"; allo stesso modo è per "Straight Ahead", boogie divertente, anoressico nei suoi e fintamente, falsamente elementare. Tutto bello. E tutto senz'anima.
Più facile riproporre il passato, se sei un gran mestierante, piuttosto che inventare il futuro, è chiaro, e "Vintage" è uno scoglio abbastanza solido su cui aggrapparsi se la navicella spaziale di "Future Blues" dovesse precipitare in mare, ma ciò non toglie che i ragazzi, cuore o non cuore, ci sanno davvero fare, il che non sfuggirà ai grandi padri del genere, a cominciare da John Lee Hooker, che, come abbiamo visto, l'anno dopo inciderà assieme a loro un disco doppio. Ed avrà modo di stupirsi della qualità di questi musicisti.

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