Dopo gli episodi inecerti di “Blue Jeans and Moonbeams” ed “Unconditionally Guaranteed”, il capitano era già ritornato più in forma che mai con “Shiny Beast” nel 1979; con questo “Doc at the Radar Station” (probabilmente il suo miglior album da “Trout Mask Replica”) Beefheart si riconferma uno dei musicisti più geniali ed eclettici di sempre.
Fin dalle prime note di “Hot Head”, il brano che apre il disco, si capisce che la ricetta di fondo è sempre la stessa: delta blues, free jazz, rhythm & blues, rock ‘n’ roll ed un pizzico di sana follia, di cui lui fu sempre un grande dispensatore. La novità rispetto al passato sta negli arrangiamenti, qui non più affidati solamente a chitarre distorte e batterie impazzite, bensì anche a sintetizzatori e fiati che qua e la fanno capolino fra una canzone e l’altra, come del resto accadeva nel precedente album.
Dapprima grande amico di Frank Zappa, Beefheart si distaccò in seguito anche da questo riferimento per portare avanti la sua personale visione di un blues fortemente decontestualizzato e destrutturato; progetto che qui forse tocca uno dei suoi vertici più estremi.
Le autocitazioni musicali, come al solito, non mancano così come anche i rimandi alla prosa surrealista sviluppata certi suoi esperimenti risalenti agli anni ’60.
Brani memorabili sono senz’altro “Sheriff of Hong Kong”, “Run Paint Run Run”, “Sue Egypt”, tutti pervasi da una esasperata cacofonia.
Un disco quindi geniale, a tratti inquietante, sicuramente realizzato in maniera impeccabile; peccato solo si tratti della penultima incisione del musicista. Dopo infatti “Ice Cream for Crow” (1982), Captain Beefheart si ritirerà definitivamente dal mondo della musica per dedicarsi esclusivamente alla pittura, in una casa-bunker isolata dal resto del mondo. Tuttavia, la sua eredità musicale può essere riscontrata nella musica di nomi imponenti come Talking Heads, Pere Ubu, Public Image Ltd., Devo.
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