Era il 1967, due anni antecedenti all'uscita di quel monumento storico chiamato "Trout Mask Replica", che il Capitano in compagnia della sua "banda magica" registrò dal vivo i brani presenti su questo album, pubblicato soltanto quattro anni più tardi.
Non siamo ancora di fronte a quella sperimentazione estrema presente nella "Trota", così estrema da non poter essere assimilata appieno da tutti neanche oggi (figuriamoci nel 1969); ma questo è comunque un album sperimentale (un grandissimo album sperimentale), che parte dal blues del Delta per approdare nella psichedelia più lisergica (in perfetta sintonia con quegli anni) e sconfinare talvolta nel caos sensoriale, al punto da far perdere la coscienza di se stessi. L'album mostra perfettamente la follia live della Magic Band: la sua imperfezione figlia del caso, il canto schizofrenico del Capitano (ora demente e talvolta ruggente), gli strumenti a fiato che simulano lamenti umani, le chitarre sgangherate...
L'album è composto da quattro brani (tutti superano i 7 minuti): si parte con "Tarotplane", il brano più lungo (ben diciannove minuti), e siamo subito di fronte ad un capolavoro, le già citate chitarre sgangherate e la folle voce del Capitano basterebbero nel primo quarto d'ora a regalare al brano un'aura sciamanica che va ben oltre il semplice blues (qui stiamo infatti approdando verso quella destrutturazione musicale che vede il Capitano come il capostipite di una generazione di sperimentatori), ma gli ultimi cinque minuti del brano sono un qualcosa di follemente straordinario... è come se il brano non volesse smettere di esistere, si ferma poi riparte, cade ma poi si rialza e continua a camminare pur con fatica, ma all’interno di questa fatica risiede il subconscio di una generazione che stenta ad andare avanti, e la frustrazione (straordinariamente sintetizzata dallo "shenai" di Van Vliet) raggiunge il suo massimo vertice. Si passa poi a “ Kandy Korn” , brano che parte con una struttura più o meno definita, ma che sconfina poi nella psichedelica più stralunata e sognante, in un climax emotivo struggente e discontinuo, come se le chitarre volessero in qualche modo rincorrere il cielo. Il terzo brano dell’album è “25th Century Quaker”, un blues molto orientaleggiante, con un testo assolutamente insensato (un po’ come “quasi” l’intera opera di Beefheart), e la voce del capitano che ripercorre i timbri più impensati, passando da un bambino di cinque anni ad un orco feroce. Alla fine di questo viaggio c’ è “Mirror Man” da cui prende il nome l’ album, un altro nonsense che mostra in 15 minuti forse l’anima più improvvisatrice del gruppo (siamo comunque di fronte ad uno dei massimi capolavori usciti fuori dalla mente malata di Van Vliet) dove gli strumenti raggiungono l’apice di questa visione deformata della realtà, in cui ritmo e melodia si confondono in qualcosa che sta fra l’ubriaco fradicio e il collasso, talvolta sottolineati dal canto bipolare di Beefheart… quasi come una jam session suonata da musicisti “appena usciti dal manicomio” .
Insomma è difficile non riconoscere la grandezza di questo album, il quale a mio parere è il migliore fra gli album “più orecchiabili” del Capitano (anche se è comunque un po’ difficile ritenere l’album orecchiabile). Consigliato anche per un primo approccio a Don Van Vliet (alias Captain Beefheart per chi non lo conoscesse, il quale era paragonato dai suoi musicisti ad un dittatore).
Che l’ Uomo Specchio sia con voi!
Carico i commenti... con calma