Uh-oh! Ci fanno notare che questa recensione compare anche (tutta o in parte) su harmoniae.com e su lanazione.quotidiano.net

È con infinita umiltà che mi concedo stavolta una disgressione nella musica definita "classica" benché stia parlando di un'opera, a mio modo di vedere, tra le più "rock" e rivoluzionarie mai concepita nel nostro 900. Prima però due cenni storici. I Carmina Burana, prima di un'opera musicale, sono uno dei più importanti documenti poetici e musicali del Medioevo, raccolti nel Codex Latinus Monacenis. Il termine Carmina Burana fu introdotto dallo studioso Johannes Andreas Schmeller nel 1847 in occasione della prima pubblicazione del manoscritto. I testi originali sono inframmezzati da notazioni morali e didattiche, come si usava nel primo Medioevo, e la varietà degli argomenti (specialmente religioso e amoroso ma anche profano e licenzioso) e delle lingue adottate, riassume le vicende degli autori, i clerici vagantes altrimenti detti goliardi (dal nome del mitico vescovo Golia) che usavano spostarsi tra le varie nascenti università europee assimilandone lo spirito più concreto e terreno.

Tutte le liriche erano destinate al canto ma gli scrivani del tempo non riportarono sempre la notazione musicale anche se un gran numero furono ricavabili da altri manoscritti. Nulla però si sapeva sugli strumenti da impiegare, il che lasciò spazio ad una notevole libertà interpretativa. Quest'opera quindi è diventata quello che tutti sappiamo grazie al lavoro certosino realizzato da Carl Orff nel 1937 che, sebbene autore attento e prolifico, non si attenne alle indicazioni contenute nel codice e reinterpretò la musica di allora, appoggiandosi su questi testi medievali in parte modificati, alla ricerca di una sonorità che "sembrasse" il più medievale possibile. Un'opera prettamente "di finzione" dunque ma che non toglie nulla al valore artistico di un capolavoro senza tempo, che ha riscosso e continua a riscuotere ancora oggi il favore del pubblico di mezzo mondo. La registrazione a cui faccio riferimento è quella interpretata dalla Orchestra of the Deutschen Oper Berlin diretta da Eugen Jochum, con i solisti Gundula Janowitz, Dietrich Fischer-Dieskau e Gerhard Stolze. Peraltro si tratta dell'unica edizione che alla sua uscita ebbe l'approvazione sottoscritta dell'autore e dunque, ancor più significativa e credibile per quanto riguarda le intenzioni.

La prima parte, più evocativa e sospesa è un ode alla natura, che conduce in prati verdi dove le fanciulle danzano e la gente canta nella lingua del popolo. Le scene si svolgono prevalentemente tra monaci disinibiti, che mangiano con vorace appetito carni arrosto e che lodano, tra chierici compiacenti, i sensuali impulsi della gioventù. Qui musicalmente l'opera è caratterizzata dalla costante presenza ritmica di un'orchestrazione molto originale che al tempo fece gridare allo scandalo. Al posto delle sonorità colorate e leggiadre del tardo romanticismo, le tonalità sono maggiormente definite con una rivisitazione del canto gregoriano e della canzone strofica medievale (la litania per esempio) creando un effetto magico e senza tempo con fasi che alternano sequenza di curve melodiche, ognuna delle quali corrisponde ad un verso del testo, a momenti epici di alta intensità emotiva con più ripetizioni di varie sequenze in giri ipnotici di rara suggestione. L'originalità dell'opera si sofferma anche sulla partitura corale che si fa declamatoria con i singoli gruppi strumentali che si comprimono in ampie "masse sonore". Le percussioni, altro elemento di dirompente trasgressione per l'epoca, rinforzate dai pianoforti, accentuano i ritmi ostinati ed energici della scrittura che resta perennemente in equilibrio tra momenti lievi e forti, caricando man mano l'ascoltatore a ritrovare una posizione equidistante tra questi due eccessi. I canti dei chierici sono pervasi dall'antica considerazione secondo cui la vita umana è soggetta ai capricci della ruota della fortuna e natura, amore, bellezza, vino sono alla mercè della legge eterna del cambiamento. L'uomo viene visto nella cruda prospettiva esistenziale di un giocattolo in mano a forze misteriose ed imperscrutabili: un punto di vista davvero sintomatico dell'atteggiamento antiromantico di quest'opera assolutamente innovatrice.

Un 'opera monumentale già anticipatrice di cambiamenti e svolte epocali che incarnò nei fatti storici, politici e sociali di un secolo, gli "eccessi" e i "cambiamenti" che ne segnarono la sua forza e il suo limite al tempo stesso. Un disco da non perdere. Uno dei dischi che sicuramente porterei nella famosa isola deserta. Uno dei pochi pilastri artistici della mia vita, musicale e non.

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