Con un’opinabile scelta strategica la casa discografica dei Santana, invece di organizzare un album live del suddetto gruppo che in quel periodo (1972) andava per la maggiore, preferì investire su questa estemporanea collaborazione fra il chitarrista chicano e il corpulento Miles, batterista di colore con forti e vanagloriose ambizioni da frontman.
In realtà sul palco (alle Hawaii, dentro un cratere! Uno dei pochi quiescenti da quelle parti, eh eh…) vi è un battaglione di gente: due altri componenti dei Santana (seconda chitarra e conga), poi un altro batterista ché Miles ha da sbraitare al microfono, poi il basso, tre ulteriori percussionisti(!), sax, tromba, organista. Sono in dodici a darci dentro!
Allora: nel caso di questi dischi dal vivo ruspanti e schietti, senza sovraincisioni e correzioni, corredati di minuti e minuti di jam session su di un unico accordo che, se non sei lì nelle prime file a prenderti la musica in faccia e magari a tirare da qualche canna di passaggio, fai fatica a goderti, c’è fra gli appassionati chi si coinvolge e si gasa; c’è invece chi li evita perché il menù musicale è abborracciato e non manca mai qualcuno sul palco che vuole sempre fare il fenomeno e allunga a dismisura il brodo. Per mia personale esperienza, le lungaggini e le esagerazioni funzionano quando sei lì presente, non mentre ascolti il disco in auto o addirittura seduto in poltrona. Cosicché oscillo sempre fra i due mood, a seconda dei giorni… il disco non è niente di imperdibile, ma l’atmosfera naïf e vintage può valere senz’altro l’ascolto.
La scaletta prevede solo un brano dei Santana, “Evil Ways” il loro primo singolo estratto dall’album di esordio del 1969, qui cantato da Carlos. In apertura vi è invece “Marbles” (biglie… sempre buffo annotare con quale fantasia vengono intitolati spesso e volentieri gli strumentali…), un gran pezzo di John McLaughlin, dall’album “Devotion” di un paio d’anni prima. Gode di un riffone basso/chitarra tanto semplice quanto intrigante, ipnotico, trascinante: è il momento migliore dell’album.
Il narcisone Miles ci appioppa anche qui il suo hit “Them Changes”, che già aveva fatto bella mostra di sé qualche anno prima nel disco di Jimi Hendrix colla Band of Gypsys di cui Miles era batterista. Amen, dopo Jimi anche Carlos e Neal Schon e gli altri vengono istruiti da Buddy ed eseguono diligentemente il funky soul del nostro.
Come già avvenuto in “Band of Gypsys” con Jimi ed ancor più in questo caso con Carlos, il concerto è deturpato dai continui, interminabili gorgheggi di Miles che starnazza tutto il tempo, alternando urla e svolazzi vocali, uniti ai soliti “You Feel Allright?”, “Everybody!, ”Clap Your Hands!” eccetera. Da sparargli! Ma la gente pare gradire, applaude e si gasa.
La prima facciata dell’LP è tutta qui, a parte due brevi interludi chiamati “Lava” (un’invocazione inopportuna, dato il sito!) e “Faith Interlude”. La seconda facciata, ovvero l’ultima traccia del cd, è invece tutta occupata dalla famigerata jam session gigante di cui si sparlava prima, denominata “Free Form Funkafide Filth”: oltre ventiquattro minuti di improvvisazioni, groove e assoli su di un unico accordo, forse due a un certo punto.
Il profumo del rock ancora nella sua fase adolescenziale c’è tutto, la consistenza musicale molto meno in quest’opera che mostra in copertina, virato in un “lavico” colore, il bel profilo del giovane Santana col suo volitivo pizzetto ed i folti capelli pettinati coi mortaretti. Di lì a un paio d’anni andrà invece in giro di bianco vestito dalla testa ai piedi, coi capelli e i baffetti da negoziante di souvenir di Tijuana e di scorta al suo guru indiano, evvabbè. Più attraente il Carlos “acido” di queste registrazioni.
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