DOPO TAPESTRY IL SUO MIGLIOR DISCO

Dopo essermi invaghito del suo Tapestry quasi vent’anni prima ho aspettato a lungo un altro bel disco di Carole King, e finalmente eccolo qui! Variegato nell’ispirazione e nelle sonorità, ma compatto nella felicità di un’esecuzione all’altezza della sua fama. Un sound irrobustito da qualche iniezione di sintetizzatori, drum machine e chitarre elettriche, con alcune ospitate di lusso come il soprano raffinato di Brandon Marsalis (in «Midnight Flyer») e il buon Eric Clapton in un paio di brani (soprattutto «Ain’t That The Way» che è un vero concentrato di Slowhand).

Dieci canzoni che cantano l’amore e i suoi tormenti, con un’eccezione: «Legacy», a mio parere il pezzo meno riuscito del disco, che si porta dietro le scorie di uno scrivere pseudo-sociale estraneo alla sua sensibilità. Certe frasi complicate e di scarsa poesia (tipo “It's all getting burnt-out, used-up / Bought and sold to the bottom line / That ain't the way it's gotta be / You can leave a better world than you find”) mi ricordano il periodo degli anni settanta in cui Carole aveva deciso di fare tutto da sola “liberandosi” da Gerry Goffin, il marito-paroliere con il quale – alle alle musiche - aveva firmato le grandi hits nel decennio precedente.

Qui Goffin è tornato per regalarle le liriche di due brani - «Midnight Flyer» e la conclusiva «Someone Who Believes In You» - a dire il vero niente di particolare. In realtà quando si tratta di trovare le parole giuste nel gioco dei sentimenti Carole se la cava bene anche da sola. Ad esempio nella title track dove le city streets diventano magiche per gli amanti abbracciati in controluce (“Lovers with their arms entwined / Silhouettes against the light”) oppure un tormento di solitudine (“I wish I could find the magic / But I’m scared and I’m feeling so alone”) per chi l’amore non ce l’ha. «City Streets» ha la cadenza giusta per diventare un piccolo classico ed è la mia canzone preferita (a impreziosirla c’è anche un bell’intervento di Michael Brecker al sax tenore). Come seconda metterei «Homeless Heart» (qui le parole sono di una vecchia volpe del songwriting come il nashvilliano John Bettis) ma le melodie del cuore - pur a volte con qualche cliché di troppo («I Can’t Stop Thinking About You») scorrono piacevoli lungo tutto l’album.

Insomma qualche difetto c’è, ma nel complesso certamente un album da salvare e da ascoltare. Intendiamoci: ormai quel che è fatto è fatto. Nel 1989 Carole naviga verso i 50 e dopo questo - e fino ad oggi - ci saranno solo un paio di episodi minori. City Streets non segna dunque un nuovo inizio artistico, ma proprio per questo – e non solo per i nostalgici di anni che non torneranno più – merita attenzione e affetto.

Per chiudere, la parte grafica: completa nei testi e nelle informazioni editoriali e niente male le fotografie di Caroline Greyshock (non l’ultima arrivata) a sfumare gli anni della nostra Carole – che bella non è mai stata anche da giovane – in un’immagine quasi sex-and-the-city ante litteram.

PS: per chi volesse approfondire, segnalo qui su Debaser la bella recensione di Jack Donney sul suo disco di esordio di Carole King e molto altro del suo primo periodo https://www.debaser.it/carole-king/writer/recensione

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