Era il 1998. Era un uomo alquanto strano, amante del metal estremo, ossessionato dal suicidio, così frequente nel suo paese, un po' pirla e mooolto misantropo. Ed era una Foresta di Carpazi: era "Black Shine Later".
Era l'avvento in realtà di una band destinata a fare strada nei meandri del black metal più oscuro e malato. La vera essenza dei Carpathian Forest era tutta lì, in quel dischetto nero dalla copertina scarna e dalle tracce assassine. Non male l'idea del gruppo: partendo dal presupposto di essere tutti amanti della scena thrash metal (tedesca o americana che fosse) e forse ancor più della scena dark (Cure e Bauhaus su tutti), i nostri decisero in quegli anni '90 (la prima pubblicazione è del '95) di mettere assieme queste due passioni musicali in una proposta che allo stesso tempo potesse esprimere la più completa sporcizia e negatività dell'animo umano in quanto tale, la misantropia, il dolore, l'odio, la depressione; il tutto con una verve ironica e opprimente. Ecco che per dar luce a ciò che avevano in mente si avvalsero di un genere che non poteva cedere a compromesso alcuno, se l'avessero usato come lo intendevano loro: il black metal. Ecco la realtà. Quello che i Carpathian Forest decisero di suonare era black metal norvegese pesantemente influenzato dai mostri sacri post Venom/Bathory, con una produzione così pulita da far risaltare ancor più la sporcizia (non è un controsenso, tranquilli), unendolo a riff tremendamente thrash e ad atmosfere buie, ossessive e a dir poco morbose.
Nattefrost non concede pause, non fa prigionieri, non rilascia dichiarazioni. Fa il suo sporco lavoro e basta, urla e distrugge. E quando l'invocazione "Black Shine Later" entra nelle orecchie, ci rimane, ormai è lì, non puoi più fermarla. Non puoi. Il thrash metal "blackizzato" del gruppo trascina vorticosamente, rimbomba, opprime. Riff granitici si alternano a giri di basso dal sapore dark, ad una decadenza malata e viscerale, a scenari di apocalisse e disperazione. E' nichilismo, è perdita della certezza. Le accelerazioni repentine cedono volentieri il passo ad arpeggi distorti, lunghi e sfiancanti. Le chitarre acustiche si inseriscono senza permesso, fanno da sottofondo al laceramento delle distorsioni. L'ugola di Nattefrost uccide, sembra stia vomitando l'anima per sputarla sul microfono. Non si riesce a capire se la chitarra vuol essere incazzata o più semplicemente ironica. Quello dei Carpathian Forest, insomma, non è altro che un modo nuovo di intendere e suonare il black metal, un modo nuovo di rapportarsi alla negatività. E per rendere la cosa ancor più evidente, basta segnalare l'ultima traccia dell'album, la meravigliosa "A Forest", ovvero la cover della miglior canzone dei Cure.
Non credo di discostarmi molto dal giusto, quando dico che "Black Shine Later", oltre ad essere il capolavoro della band norvegese, merita di entrare nell'olimpo dei classici black, magari al di sotto, ma comunque vicino a lavori del calibro di "Pure Holocaust", "De Mysteriis Dom Sathanas", "A Blaze in Northern Sky" e "Nemesis Divina". Inni a Satana e marce naziste non servono a nulla, occorre analizzare l'inconscio più in profondità, occorre sradicare la malvagità dall'animo per poterla esorcizzare, non basta metterla lì, in bella mostra. E forse i Carpathian Forest questo l'avevano capito.
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