Forse i Carpathian Forest il meglio lo hanno dato con le prime registrazioni, quando ancora erano una band di culto, sconosciuti ai più, lontani dai riflettori dei media, portatori di un black metal atavico che prescindeva dalla rivoluzione dei vari Mayhem e Darkthrone.
Forse il meglio lo troviamo nella crudezza dei primi demo, nei suoni sporchi e misantropici di EP come "Bloodlust and Perversion" (del 1992) e "Through Chasm, Caves and Titan Woods" (del 1995).
Forse, il meglio lo troviamo solamente in pezzi come "Journey Through the Cold Moors of Svarttjern", così lontani dai canoni stilistici vigenti all'epoca, eppure così eloquentemente pervasi dal più autentico spirito black metal.
"Black Shining Leather", del 1998, è forse il capolavoro formale, ma certe atmosfere, ahimè, sono già andate irrimediabilmente perdute: di lì in poi l'iter artistico della band si rivelerà una parabola discendente, culminante con gli ultimi poco entusiasmanti lavori ed infine consacrata nella merda dalla deplorevole prova solista di Nattefrost (intitolata eloquentemente "Blood and Vomit").
E' chiaro che i Carpathian Forest hanno avuto senso finché sono coesistite le due anime della band, indispensabili l'una all'altra nella loro complementarietà: quella istintiva di Nattefrost e quella meditativa di Nordavind, a cui, a mio parere, si debbono le intuizioni più vincenti della formazione norvegese. Dalla dipartita di quest'ultimo, e con il conseguente predominio dell'istinto birraiolo di quell'idiota di Nattefrost, la musica dei Carpathian Forest degenererà nella semplicistica reiterazione di una formula che con il tempo finirà con il perdere freschezza ed appeal.
Prima del tracollo finale, possiamo però dare una spolveratina agli album gemelli "Strange Old Brew" e "Morbid Fashination of Death", rispettivamente del 2000 e del 2001, che ci consegnano dei Carpathian Forest ancora in buona salute: più vicini al punk dei Motorhead, al black primordiale di Venom e Bathory, al thrash metal di Sodom e Destruction, in questi due lavori i Nostri hanno modo di consolidare e raffinare quello che possiamo definire un black'n'roll da pervertiti, essenzialmente rozzo e violento, ma squarciato da guizzi di insana mestizia capaci di catapultarci negli abissi sanguinolenti del black metal più metafisico.
"Strange Old Brew" fotografa i Carpathian Forest nella loro versione più compatta e coesa, forti di una formazione nuovamente rivoluzionata: Nattefrost (voce e chitarra) e Nordavind (chitarra, tastiere e voce), padri-padroni della band, decidono di non affidarsi all'estro estemporaneo di turnisti, come già successo in passato, ma di reclutare manodopera motivata e con un discreto bagaglio tecnico ed esperienziale alle spalle: divengono così parte dell'ensemble Tchort (già visto dalle parti degli Emperor ai tempi del capolavoro "In the Nightside Eclipse", adesso provetto Lemmy con il suo basso al vetriolo) e Kobro (ex batterista degli In the Woods) che sfodera tutta quella potenza e quella cattiveria che probabilmente "Nelle Foreste" non gli era concesso di esternare. E proprio grazie al suo drumming preciso e vigoroso, il "Misanthropic Black Metal" dei Carpathian Forest può finalmente viaggiare con una marcia in più.
I pezzi, scritti fra il '93 e il '97, si dividono fra schegge di sporco thrash ed oscure parentesi capaci di far emergere il lato più negativo, e in un certo senso "depressive", della temibile entità norvegese. Dimensione in cui, a mio parere, emergono i Carpathian Forest più ispirati ed originali, senz'altro meno tributari delle vecchie glorie degli anni ottanta.
Il trittico iniziale ci mostra il volto più violento dei Carpathian Forest: "Blood Cleansing", "Mask of the Slave", "Martyr Sacrificulum" sono fucilate che, pur non giocando la carta della velocità supersonica, non potranno non coinvolgere grazie a riff essenziali, micidiali cambi di tempo ed una immediatezza punk che troverà il suo apice nella bonus-track "He's Turning Blue".
"Thanatology" e "Cloak of Midnight", rigorosamente a cura di Nordavind, mostrano invece il lato più "metafisico" ed inquietante della band norvegese: veri e propri abissi dove sprofondare impantanati in tastiere di ghiaccio, tempi funebri, screaming minacciosi e strazianti giri di chitarra che ci rimandano al Conte più esistenzialista.
Davvero un colpo di scena il sassofono da night-club di "House of the Whipchord", oscura parentesi lynchiana, dove la voce gracchiante di Nattefrost è accompagnata da un lugubre pianoforte e dai battiti lontani di una desolante elettronica. Non si spaventino i puristi, nessun concessione alla commercialità: pur non presentando traccia di chitarre, il pezzo in questione si candida a pezzo più raccapricciante dell'album. Album che in più di un episodio non disegnerà soluzioni estranee all'universo metal (basti pensare all'industrial marziale dell'intro "Damnation Chant").
Tutto l'album, in realtà, gioca sull'alternarsi fra violenza ed atmosfera, ponendosi al centro di un labile equilibrio che, all'insegna della varietà e del giusto alternarsi delle suggestioni, rende indubbiamente l'ascolto di facile fruizione. Più che a livello strettamente musicale, il carattere estremo dei Carpathian Forest risiede infatti nel clima di perversione ed morbosità che da sempre anima i loro lavori, e che in questo album trova amplificazione in allucinati umori sado-maso che via via prenderanno maggiore rilevanza nelle opere che seguiranno.
A salutarci, tanto per ribadire la finezza di gusto dei Nostri, l'inquietante gorgogliare di un clistere ("The Good Old Enema Treatment").
Per quelli che pensano che il black metal non sia solo ed esclusivamente un ronzio di chitarre e un frusciare di piatti in lontananza.
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