Chapeau maestro. O avvocato. O come vuol esser chiamato… Semplicemente Conte, non dal sangue blu, anche se di nobiltà d’animo non è carente, anzi; perché il maestro è nell’anima e nella sua precedente vita di autore “per conto terzi” inventa a go-go, alcune melodie che rimarranno nei decenni capisaldi del patrimonio canzonettaro nazionale.
Autunno 1968, venti di ribellione, l’Italia in bianco e nero, mamma RAI e due soli canali TV, sul principale andava in onda Canzonissima.
Una kermesse lunga quattro mesi e a sfilare una trafila numerosa di interpreti e di giovani cantautori dell'attualità di quegli anni, compresa una pimpante Caterina Caselli in erba che nella seconda fase del torneo canoro, dopo la prima promozione con "Perdono", ha l’onore e l’onere (contrattuale) di cantare il maestro.
Il brano, su testo del paroliere Pallavicini è enorme e trascinante. Lei non è intonatissima, non lo è mai stata, ma è un pugno allo stomaco di commovente emozionalità. Traghetterà “casco d’oro” in finale, ma dovrà presentare un’altra canzone, “Il carnevale” che il 6 gennaio non la spunterà.
“Insieme a te non ci sto più”, come molti altri brani, accusa molto quel nazional-popolare, ma è secondo me, tra le nazional-popolari e per il periodo in cui vide luce, la più significativa, quella nata ed espressa meglio di altre. Ed è da un punto di vista personalissimo, quella che più visceralmente amo in assoluto. Per dirla semplice: la più bella canzone d'amore italiana.

Schemi ed abitudini che saltano dopo anni, quasi senza avvertirti (o forse si, lei era già fredda e distaccata ultimamente), come il tappo di un effervescente millesimato, pronto a vomitare il suo sangue alcolico su un lucido pavimento in marmo carrarese.
Un deflagrante sisma dell’anima che smembra le fondamenta dell’io e fa crollare le pareti dell’autostima ed il tetto dell’amore, catapultandoti sotto le macerie.[***]
Silenzio, desolazione, fischio d’orecchio, semi-incoscienza, frantumi ovunque, nebbia negli occhi, polvere di calcestruzzo nei polmoni, vista insufficiente, percezione di ipoglicemia, male alle ossa… E ancora silenzio, e poi quiescienza, e poi…

Lei insieme a lui non ci sta più [NON CAPISCO AMORE, NON PUOI FARLO]. Tuttavia è sopravvissuto. Insignificante, avulso, in un letargico stato embrionale. Ma è sopravvissuto.

E guarda le nuvole lassù [AIUTAMI, NON ABBANDONARMI], le nuvole di quel polveroso cataclisma, mentre lui si ritrova sepolto vivo in quell’opprimente ovulo di disperazione.

Lei non ha tenerezza e comprensione, le cercava in lui e non gli porgerà la sua mano [CAROGNA, PERCHE’ PROPRIO A ME?] per offrirgli un barlume ed una speranza o uno sputo d’illusione.

Invece no, finisce qua, con la consapevolezza dell’allontanamento, l’acido nel palato di chi se ne va e del male che sta gratuitamente esercitando, [CHE TU SIA MALEDETTA] del lacerante delitto al cuore che sta commettendo e lui inerme, prigioniero sotto, tra il torpore di un mantello di pietra.

Lei trascina negli occhi dei torrenti d’acqua chiara dove berrà [DANNATA, ERO IO LA TUA SORGENTE D’AMORE]. “Tic”, “Toc”. Per lui nulla di tutto ciò. “Tic”, “Toc”, solo minuscole lacrime che iniziano a precipitare da un rugginoso residuo tubolare di grondaia, olivastro e rachitico, capitolando definitivamente sull’antelice di uno dei suoi padiglioni uditori. Solo “Tic”. Poi “Toc”. In quel deleterio dormiveglia brumoso non percepisce altrimenti.

Lei cerca boschi e vallate col sole più caldo di lui [CON TUTTO QUELLO CHE HO SAPUTO DARTI]. Assopito su quel giaciglio angusto, la sua testa macina immagini contorte e diapositive sfuocate al ritmo di migliaia di caotici flashback al minuto.

Entrambi stanno morendo un po’ per poter vivere ed per questo che lo invita a sorriderle se può, anche se non è facile [MA COME POTREI… MI STAI UCCIDENDO COME UN CONDANNATO]. Si riaddormenta e sogna il suo volto che sbiadisce come una vecchia foto in effetto seppia; ricordi più nitidi, recenti e remoti di estati balneari e pomposi Natali in famiglia, tra le sue braccia tiepide e i suoi capelli folti.

Lei lo saluta, non c’è addio, [PERCHE’ MI CHIAMI AMORE MENTRE DICI ARRIVEDERCI?]. Un chiarore, un abbaglio che sventra il suo sonno, lo trascinano, lo prendono a sberle. Per pochi secondi si ripiglia e appare quel sorriso che gli chiedeva, per poi ripiombare nel vuoto assoluto. Ancora silenzio e nell'oscurità onirica un sussurro, rimbombante e amplificato che ripete allo sfinimento "Arrivederci amore, ciao".

Profumo di detersivo, un soffitto bianco e delle lenzuola candide. Tra la penombra della stanza, ordinati penetrano dalle fessure della tapparella minuscoli raggi di sole. E’ definitivamente desto, è definitivamente sopravvissuto. Anzi, è definitivamente vivo. La sua famiglia e i suoi amici lo hanno tratto in salvo [DOVE SEI AMORE? E’ STATO UN INCUBO VERO?], lei non c’è più, si è incamminata oltre, anche le nubi sono già più in là, ma dalla parte opposta.
Tempo al tempo. Tutto ti sarà più chiaro amico mio. La ringrazierai per averti liberato dal suo disamore, dai suoi silenzi, dai suoi occhi ormai spenti e dalle sue menzogne. Si, quasi sicuramente scoprirai anche quelle e comprenderai serenamente quanto ne è valsa la pena farsi ammazzare. Ma ora sei una fenice risorta, leccati le ferite, torna a spiccare il volo e anche tu osserva dall’alto i boschi e le vallate con il sole più caldo di lei.

[***] Nessun riferimento ad eventi sismici reali o alla recente tragedia nelle zone del reatino e del piceno.

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