I Cathedral di cui vorrei parlare non sono il gruppo doom metal inglese di Lee Dorrian, sicuramente più rinomato.

I Cathedral di questo splendido disco, "Stained Glass Stories" sono un pacato gruppo americano (New York per la precisione), che ha vissuto lo spazio di un disco e poi è sparito, un po' per le vendite (pochine) e un po' perché il progressive che hanno cercato di incastonare nel loro unico disco stava già perdendo colpi. Nel 1976, anno della prima pubblicazione di questo gioiellino, le maggiori band progressive organizzavano cambi di rotta (Yes, Genesis) e quelle nate da poco (Rush, Camel) indirizzavano questo genere musicale verso altre spiagge. Nonostante tutto, i Cathedral, sembravano vivere in un oasi incontaminata, dove il tempo si era fermato (diciamo intorno al 1972) e dove poter tranquillamente registrare un disco di musica progressive sinfonica sul modello dei grandi gruppi inglesi che avevano fatto storia.

Il loro sound non brilla per l'originalità è vero, i riferimenti agli Yes si sprecano, tuttavia non manca una certa ricerca verso la sperimentazione e un uso veramente superbo di alternanza di momenti melodici, notturni, catartici ad altri più movimentati, con ritmiche impegnative e complesse che crescono poco a poco fino ad esplodere. Il disco non è facile da ascoltare: non lo si può mettere sul piatto (la versione in cd è praticamente irreperibile) e poi lo si lascia andare. I brani catturano per la loro precisione, perfezione e per la presenza di numerosi strumenti contemporaneamente: accade spesso che la voce eterea e sognante di Paul Seal venga accompagnata da organi, chitarre acustiche, percussioni e strumenti classici senza mai però saturare il suono. Nessuno strumento prevale sugli altri e questo crea intensi passaggi strumentali in bilico tra il caos organizzato dei King Crimson più sperimentali e il classicismo sinfonico degli Yes. Massimo esempio di tali espedienti è il brano che apre il disco, "Introspect", piccola suite dove certamente non mancano le idee e quella sperimentazione di cui parlavo. La soffice chitarra di Rudy Perrone risalta nella parte finale del brano con assolo tipicamente progressive e riprese melodiche fino alla superba chiusura acustica.

Il brano successivo, "Gong" mantiene le promesse. Uno strumentale eccelso, tra momenti sognanti con acustiche e tastiere orchestrali e accelerazioni assolutamente integrate nel procedere della traccia. Di nuovo la chitarra di Perrone descrive melodie mai banali nell'assolo che sfocia in un arpeggio di indubbia levatura tecnica non solo da parte del chitarrista ma del gruppo intero. Si passa al lato B del disco. Un coro da chiesa introduce quello che sicuramente è il brano più sperimentale di tutta l'opera: "The Crossing". Impossibile non ripensare ai Genesis mentre lo si ascolta, soprattutto è la voce di Seal a trarre in inganno ricordando il timbro di Peter Gabriel, specialmente negli acuti. La parte strumentale tuttavia è molto personale e rientra perfettamente nei canoni stilistici descritti precedentemente. "Days & Changes", introdotta dalla sola voce di Seal, si presenta come un brano più melodico e rilassato ma riprende quasi subito le rotte ideali del gruppo. Il sound questa volta è marcatamente Yes e a passaggi orchestrali di organo si alternano staccati tecnicamente impeccabili che coinvolgono principalmente il basso e la batteria mentre Perrone da sfogo alle sue voglie chitarristiche sempre molto pacate. Il brano si chiude ad anello riprendendo il tema corale iniziale. Per chiudere, la seconda suite: "The Search". L'inizio è meno nervoso rispetto ad "Introspect" e l'introduzione strumentale lascia spazio al cantato sempre molto sentito di Seal. La melodia vocale, che nella traccia risalta maggiormente, è sicuramente la migliore del disco. Brevi staccati senza voce tra una strofa e l'altra danno pathos al brano che sembra crescere in un climax dove si aggiungono strumenti e la batteria prende velocità. A chiudere il tutto lunghi accordi di organo dove gli influssi dei King Crimson del primo periodo e dei Genesis di Gabriel sono sempre evidenti. Preciso che questi continui paragoni non sono per minimizzare il gruppo quanto per dare a chi legge una vaga idea della complessità veramente straordinaria di questo album.

"Stained Glass Stories", come ho già detto, è un disco uscito in un periodo sfavorevole per il progressive più classico ma che possiede così tante qualità che andrebbe riscoperto e rivalutato con la giusta attenzione. Le idee non sono sempre originali e l'ispirazione ai grandi del progressive inglese penalizza un po' ma è pure vero che la sperimentazione (soprattutto in alcuni brani) ha un ruolo primario in tutta la produzione. Un gruppo, i Cathedral di New York, che cercava un identità e purtroppo non è riuscita a trovarla appieno e che, malgrado tutto, ci ha regalato un piccolo gioiello che sta a noi sfruttare. Possibilmente al meglio.

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