"Non hanno avuto neanche il tempo di sbagliare/non sbaglieranno più"

C'è qualcosa di ostinato, insistente nella musica di Cesare Basile. Come il suo modo di cantare per esempio, quel pronunciare parole scandite e stentate al tempo stesso. Frasi sputate fuori a pezzi, frammentate, pronunciate con un sottile dolore. E' una protesta non urlata, affilata piuttosto, fiera di incarnare musicalmente una cosa che sempre più difficilmente capita di trovare. Dignità. Forse rabbia. Non-rassegnazione. Quella che caratterizza i personaggi delle sue storie, una umanità perdente che non viene né giudicata né compatita, ma raccontata, portata in vita con forza, livida, pulsante. Sono storie brevi, schegge (la metà delle canzoni non supera i tre minuti), sentieri pieni di asperità, che a volte ti esplodono in faccia ("Canto dell'osso", "Storia di Caino"), altre ti pungolano coi loro spigoli ("Per nome", "Gli agnelli", "Donna al pozzo"). C'è anche una forte componente di spiritualità, che si libera dai dogmi nel momento in cui li nomina; molte canzoni  contengono riferimenti biblici e religiosi in genere, non solo quella che dà il titolo al disco, o la dolorosa eppure liberatoria invocazione finale di "Maria degli ammalati". E' in generale una sensazione che infonde tutta l'opera, un fuoco che brucia lento e poi avvampa improvviso, lasciando un calore intenso una volta estintosi. E poi c'è l'amore, anch'esso di forma acuminata, quella di un uncino, di un sogno che è tanto agognato quanto pericoloso perché capace di divorare coloro che ci si trovano coinvolti ("All'uncino di un sogno"). 

La marca stilistica è la stessa che è andata via via definendosi nei precedenti Gran Calavera Elettrica e Hellequin Song. Folk scuro, blues, ritmiche spezzate e occasionali quanto incisive chitarre distorte, come nella storia di Caino, la cui viva voce ci narra da dove nacque l'odio per suo fratello ("era pastore e serviva col sangue, col suo coltello scriveva preghiere, vestendo il vanto dell'amore di Dio"), degno erede anche concettuale del "Fratello gentile" del disco precedente. A contrasto invece arriva "Sul mondo e sulle luci", elegia pianistica soffusa e corale che è forse l'apice del disco. L'inquietudine ha il suono di feedback lontano de "Gli agnelli", dei sonagli di "Donna al pozzo", della voce filtrata di "A tutte ho chiesto meraviglia", del riff distorto di "Canto dell'osso".

Dovessi fare dei nomi per dare qualche riferimento musicale, piuttosto che i soliti Cave o Lanegan, direi i Califone, i Giant Sand più pensosi, i Calexico e i Willard Grant Cospiracy, il cui cantante compare in "What else have I to spur me in to love". Ma sono solo citazioni imprecise, la musica di Basile diventa di disco in disco sempre più personale, autorevole, creatrice e non epigona. Ed è significativo che proprio da forme così codificate, inserite in una tradizione nasca invece un suono che schiva luoghi comuni e si oppone in maniera tanto veemente quanto implicita al sottofondo informe, inutile, nato vecchio che quotidianamente ascoltiamo.

L'unico momento di esplicita attualità è ironicamente anche quello musicalmente più leggero e arioso. Sospinta da un andante chitarristico che si adatterebbe splendidamente a dei Belle & Sebastien senza zucchero, "Il fiato corto di Milano" è una feroce quanto lucida satira abitata da personaggi grotteschi nonché reali come i banchieri fritto-di-pollo e i partigiani griffati Corona ("venga chiunque a fare banco, vengano pure a grufolare, qui non c'è gloria e non c'è onore da serbare").

In un panorama arido e desertico, la musica di Cesare Basile ha la forza dell'acqua (che prima ho chiamato fuoco) che spacca la terra secca e sfocia per un attimo, testarda ed invitta anche quando perde. Soprattutto allora.

"China e distante sugli elementi del disastro/dalle cose che accadono al di sopra delle parole/celebrative del nulla/lungo un facile vento/di sazietà e di impunita/la maggioranza sta". ("Smisurata preghiera", Fabrizio De Andrè)

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