Le parole di Pavese fanno male. Hanno suoni aspri, stridenti, perfettamente in sintonia con il paesaggio e le persone di cui parlano. Sono lettere di fuoco, scritte con la violenza di un uomo che aveva già preso la drammatica decisione di togliersi la vita. E' forse per questo motivo che il suo capolavoro La luna e i falò traccia ancora più solci di sofferenza nell'animo del lettore.

Scritto alla fine del 1949 e pubblicato l'anno successivo (quello della sua morte), "La luna e i falò" rappresenta a mio avviso uno degli episodi più toccanti, seminali, tragici e sentiti di tutta la letteratura italiana del novecento. La storia dell'emigrante Anguilla, che torna nelle colline delle Langhe (scenario puù volte utilizzato da Pavese), è una vicenda umana che scalda il cuore per come ci viene raccontata. Una reminescenza di ricordi, delle serate nei paeselli piemontesi a discorrere con il musicista Nuto, degli innumerevoli giorni passati a lavorare nelle vigne, delle amicizie perdute e ritrovate, della difficoltà quotidiana. La consapevolezza che tutto è mutato...

Non saprei dire con certezza dova sta la grande forza di questo romanzo. D'altronde la cosa è soggettiva e il tutto varia da persona a persona. Quello che ho capito con certezza è la debole mente di chi questo libro lo scrisse. Pavese ha sempre sofferto questo mondo. Ha sofferto la sua incapacità di aiutare i partigiani nella Resistenza, ha sofferto per amore. Tutte queste sue paure, difficoltà, indecisioni, sono divenute l'anima portante dei suoi lavori. Anguilla altro non è che Pavese stesso, che ripercorre la sua vita e i suoi insuccessi. Forse la grande forza di La luna e i falò sta nella storia stessa del protagonista, che sembra un po' il vagabondo romantico che tutti vorremmo essere. Forse è l'eterno ritorno di tutto: Anguilla che dal Piemonte va in America per poi tornare ed accorgersi che il mondo in cui viveva non c'è più. Forse è il fuoco: la sua potenza, il suo calore che si riflette nelle aride stoppie delle Langhe. Il fuoco che veniva acceso dai contadini nella loro convinzione che potesse dare maggiori raccolti. Ma questo fuoco non fa altro che distruggere e uccidere all'intero del romanzo. E' l'unione di tutti questi elementi che determina la grande forza emotiva dell'opera di Pavese.

Leggendo le parole dello scrittore piemontese, salgono a galla una miriade di sensazioni. Eppure la sua scrittura non è ricercata, lo scenario descritto nel bene e nel male è sempre lo stesso. Risuonano i fruscii dei tigli, si sente il sapore del vino, si percepisce l'odore della terra riarsa. Un mondo che a noi appare come ostile, ma in cui Anguilla si trova a suo agio ed emarginato allo stesso tempo.

"La luna e i falò" incarna la differenza tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere. La realtà quotidiana è l'essere, la verità e ad essa non si può scappare. Inutile allontanarsi dalla vita, inutile girare il mondo in lungo e in largo. La realtà ovunque si vada rimane la stessa ed è l'uomo a doverne cogliere i significati. Scappare è inutile, ma rimane il sentimento che lega l'uomo alla sua terra d'origine. Ora quei falò che prima significavano festa, aggregazione, stanno lì a rappresentare la morte. E' la fina causata dalla guerra che ha distrutto le case, le colline e gli uomini stessi...

"Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti".

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