Certe volte viene da chiederselo. Perché? Perché ci sono anni di autentici, pura, vergognosa ed autentica merda ed altri sublimi, cristallini ed assolutamente fondamentali per la storia della musica?Ad esempio, il numero di capolavori usciti nel ’ 67 basterebbe per riempire la storia della musica di un intero lustro, e invece sono concentrati in appena 12 mesi. Stesso discorso vale per il ’ 59, anno grandioso per ogni ascoltatore di jazz, e sono sufficienti due titoli a far capire perché: “Kind of blue” e “Mingus Ah Um” . Del primo album si è già parlato su queste pagine, quindi vediamo di spendere qualche parola sul secondo.

Charles Mingus nel  '59 ha 37 anni: è un omone grande e grosso, e più che un jazzista per modi di fare e di parlare sembra uno scaricatore di porto, oltre ad avere un caratteraccio, ma questa sembra essere una prerogativa dei grandi band-leader. Aveva cominciato a farsi notare appena ventunenne come bassista a Los Angeles, dove frequentava l’ università, ma il suo fenomeno esplose una decina di anni più tardi, a New York, dove infiammò il pubblico con una serie di concerti. Però. Però quello che suona non sembra essere vero jazz, se jazz è la musica “ imprevista” per eccellenza: infatti Mingus scrive le sue composizioni per intero, lasciando pochissimo alla libertà dei suoi musicisti, perchè vuole che le sue composizioni siano in tutto e per tutto uguali a ciò che ha in testa. Ma si rende conto del suo errore: punto primo, quello non è jazz, e punto secondo, nessun musicista, a parte Mingus stesso, può suonare le composizioni di Mingus come vorrebbe Mingus. E allora è meglio tornare alle radici, pensa il nostro meticcio, meglio dare ai musicisti solo una traccia su cui muoversi, mutando in punto di forza la singolarità di ogni elemento della band.

Charles Mingus raduna un gruppo di buoni jazzisti (non straordinari né arcinoti: dopo i battibecchi con Thelonius Monk preferirà essere la sola prima-donna) e dà vita ad un meraviglioso disco jazz. Nasce “Mingus Ah Um” . L’ album (59 minuti di musica senza sbavature, mica cotica) si apre e si chiude con note di basso, quasi a sottolineare l’importanza che il ritmo ha per questo mostro sacro: l’ inizio è affidato alla folgorante “Better Git It In Your Soul”, che è onestamente riduttivo definire jazz; è un gioioso gospel, con alcune sorprendenti invenzioni ritmiche, quel pianoforte che si muove sinuoso e martellante, le trombe che si insinuano, una gaia tensione tenuta a livelli erotici e roventi, la voce del grande Mingus in sottofondo ad incitare i suoi musicisti, quel hand-clappin’ che tiene un ritmo inusitato sotto un magnifico assolo di sax, i misurati e potenti interventi della batteria… che roba…

Il secondo pezzo del set, “Goodbye Pork Pie Hat” , un’elegia all’allora da poco deceduto Lester Young, è una melodia raffinata, romantica e malinconica, notturna e sapida di alcol, portata interamente avanti dai fiati, che si stempera dopo quasi sei minuti in una maniera che neanche la colonna sonora di un film noir; “Boogie Stop Shuffle” sa quasi di malato, di sporco e criminoso, all’ inizio può essere irritante, ma dopo quelle sbavature (volute) diverranno poi assolutamente piacevoli ed essenziali. “Self Portrait In Three Colors” è una piccola composizione, una gemma assolutamente perfetta, un pezzo diurno e cinematografico (non per niente, se non erro, doveva essere usata per un film di Cassavettes); “Open Letter To Duke” è uno dei tre omaggi ai suoi maestri presenti nel disco, un brano eccezionale, con le trombe prima ritmatissime poi d’ improvviso ubriache ed eccessive, che si riprendono gradualmente come un treno in corsa che va a sbattere alla fine contro venti-trenta secondi di samba.

L’altro omaggio è a Charlie Parker con un pezzo dal titolo “Bird Calls” , con le trombe che aprono e chiudono imitando uccelli impazziti, salvo poi addomesticarsi (si fa per dire, perché qui il jazz e le improvvisazioni girano su beat fulminei) e dar vita ad un bellissimo e onomatopeico refrain. È la volta di un altro capolavoro, “Fables Of Faubus” , dedicato ad un senatore dell’ Arkansas noto per le sue opinioni razziste: e allora gli dedica questo pezzo, impressionista come non mai nel tratteggiare un uomo furbo ed insinuante, perfido e sghembo, veramente un brano geniale. È troppo vero? C’ è troppa carne al fuoco, già così è un disco enorme, ma non è ancora finita, c’ è ancora tempo per “Pussy Cat Dues” , roba avvolgente, un blues essenziale e trascinante, col basso di Mingus qui in gran rispolvero, coi fiati che tengono il ritmo e lui che fa per quasi un minuto e mezzo quello che gli pare; ed infine, “Jelly Roll” , omaggio ironico e sentito a Jelly Roll Morton, l’ l’ “ inventore” del jazz, pezzo che prende le mosse da un riff che sembra uscito direttamente dagli anni ’ 20 e che di quei tempi ha tutta l’atmosfera, che chiude un disco enorme, immenso, strabordante, adatto e consigliato a tutti, neofiti e non. È un disco che ricorda quanto il jazz possa essere la musica più muscolare, vera e diretta che dovrebbe esistere e che andrà infatti, fin dal primo ascolto, da quel tocco di basso che apre l’opera, dritto al cuore, ed allo stomaco.

Carico i commenti... con calma