1963. La grandezza di "The Black Saint and the Sinner Lady" mette in ombra dal punto di vista critico il coetaneo in questione. Ma anche se quest'ultimo non racchiude l'aura liturgica che il precedente disco aveva confezionato, mi permetto di considerarlo uno dei lavori che preferisco del (a mio parere) jazzista migliore di sempre. Non è un album di rivoluzione sociale o musicale, non da l'idea di essere troppo studiato o pensato, e la quasi totalità delle composizioni sono già incise in precedenza. Però è un disco fantastico.
Gli inediti sono due, "Celia" e "Mood Indigo" (l'ultimo dei quali è un'interpretazione del famoso brano del duca), e gli altri pezzi sono delle rivisitazioni, come già detto, di vecchi brani del maestro (proposti con diverti titoli e ripescati da capolavori come "Mingus Ah Um", per dirne uno). I brani scorrono lisci uno dietro l'altro che è una meraviglia, e la varietà tra questi è non indifferente, passando da un Mingus scatenato, sudato, che suona con furia animale sul contrabbasso ("II B.S.") ad un Mingus con il suo immancabile sigaro che recita un po' di spoken word in penombra ("Freedom"). Tutto tranne che monolitico. Non mi azzardo a commentare l'esecuzione musicale, perchè sarebbe a dir poco offensivo, ma mi limito a citare la partecipazione di un nome imprescindibile: Eric Dolphy.
Quindi, non ponetevi all'ascolto di un semplice greatest hits rivisitato, ma all'ascolto di un'opera rappresentativa dello spirito musicale di uno dei più grandi della musica. Qui si chiude la riconosciuta epoca d'oro del gigante (sì, era un tipo grosso), e l'ascolto è consigliato anche a chi nulla ha sentito di lui, ma di jazz è appassionato.
"This mule ain't from Moscow.
This mule ain't from the South.
But this mule had some learning.
Mostly mouth to mouth"
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