(Nella recensione si anticipano i temi degli episodi).

Black Mirror non poteva continuare a essere la fucina di idee che era stato nelle prime tre stagioni. La carne al fuoco era davvero tanta, forse troppa rispetto al tempo dedicatole. È giusto quindi che con la quarta annata il capolavoro distopico di Charlie Brooker prenda una direzione differente. Più che introdurre nuove diavolerie tecnologiche, questi sei episodi sondano con grande acume e spietatezza i risvolti dell'animo umano legati alle nuove possibilità della tecnica. Quello che rimane allo spettatore non è tanto un quadro di nuove iperboliche possibilità, quanto piuttosto una visione più o meno raggelante delle attitudini umane, delle piccole meschinità, delle grandi crudeltà di cui è capace l'essere umano di fronte alla prospettiva di fallimento della propria esistenza.

Ed è questa prospettiva che rende la nuova stagione quella forse umanamente più toccante, più vicina al sentire di ogni giorno di una qualsiasi persona: dallo sfigato genio dei computer che si vendica attraverso una simulazione in una realtà cibernetica, alla mamma ansiosa che vuole conoscere tutto della vita di sua figlia, alla donna in carriera che è disposta a tutto pur di preservare il suo piccolo idillio, fino all'uomo che desidera conservare la coscienza della moglie scomparsa prematuramente. Sono tanti sentimenti comuni quelli che popolano il nuovo affresco distopico, forse non più tanto originale come in alcuni exploit del passato, ma capace di imporre nuove terribili riflessioni su cosa sia disposto a fare l'essere umano per conservare quanto ha di prezioso o per raggiungere uno status di maggiore soddisfazione, di più perentoria affermazione di se stesso.

Il primo episodio, USS Callister, richiama quasi in modo identico la terrificante idea dello speciale del Natale 2014: i "cookies" questa volta vengono utilizzati per un videogame, che darà la possibilità al suo creatore di sfogare le proprie frustrazioni quotidiane. In assenza di grandi novità concettuali, l'episodio si fa apprezzare per la sua struttura articolata, per il gustoso confronto tra realtà e mondo virtuale, per gli stratagemmi che verranno concepiti dalle vittime di questo gioco perverso per fuggire da una simile condanna.

E quest'idea, fertilissima, dei cookies torna nell'ultima parte del capitolo conclusivo, Black Museum, quando un condannato a morte dovrà rivivere infinite volte il dolore della sedia elettrica. O quando la coscienza di una madre sarà costretta a perdurare nel corpo inespressivo di una scimmia peluche. Il concetto di vita eterna, eternamente dannata, che aveva fatto irruzione con Bianco Natale, ha insomma delle interessanti riproposizioni che pur non aggiungendo nulla, riformulano ulteriormente il concetto di malvagità umana.

L'idea di controllo assoluto e censura imposta a livello cerebrale, che spuntava già in un paio di episodi, torna con un taglio diverso in Arkangel. Anche qui, tecnologie familiari agli spettatori affezionati, ma declinate in una prospettiva diversa, in questo caso da percorso formativo. La bambina, sottoposta al controllo serrato di una madre incapace, diventerà adolescente, con tutti i problemi che si possono immaginare.

Il controllo sui ricordi che già aveva portato a esiti devastanti in The Entire History of You, torna con non inferiore efficacia in Crocodile. Anche in questo caso, la riproposizione non è sterile, sia grazie alla messa in scena molto elegante, con paesaggi suggestivi e giochi di inquadrature raffinati, sia per la differente e più grave situazione che va a intercettare. Come detto, si sonda più a fondo l'animo umano, mettendo i protagonisti sempre di fronte a un bivio: correttezza, rispetto e giustizia da una parte, autoaffermazione, prevaricazione, controllo dall'altra. Quindi non è tanto importante la novità tecnologica che viene introdotta, spesso illustrata in brevissimo tempo, ma è la perversione umana ad essere decisiva per gli esiti nefasti che tutti ormai s'aspettano.

Una visione diversa, non meno inquietante ma particolarmente fresca, viene proposta in Hang the DJ. Una lezione di vita, un trattato sull'uomo e i paletti che si impone nell'ambito dei sentimenti. O meglio ancora, l'analisi di come le aspettative e le prospettive aprioristiche alterino e di fatto determino gli sviluppo dei rapporti affettivi. Il tutto inserito nell'ormai classico gioco di scatole cinesi a cui la serie ci ha piacevolmente abituati. Questa volta non è tanto una distopia, al contrario: è una visione quasi utopica, d'uno strumento così complesso da racchiudere dentro di se interi mondi e vite, per funzionare perfettamente.

Il jolly della stagione è rappresentato da Metalhead, che se vogliamo è anche l'episodio stilisticamente più connotato. Bianco e nero, una sola protagonista che scappa da un cane robot piccolo e semplice quanto implacabile. E sta proprio nella semplicità della narrazione la sua forza micidiale. Dopo una fuga disperata di 40 minuti, la beffa finale arriva con la motivazione di tutto, l'oggetto del desiderio per cui tre persone hanno messo a repentaglio la loro vita. La lineare efficacia dei cani di metallo è terrificante proprio perché silenziosa, priva di ferocia, metodica, e soprattutto spinta da futili motivi.

Il finale di stagione richiama ancora una volta la struttura di Bianco Natale, con tre diversi episodi narrati da uno dei protagonisti. Se quello della scimmietta peluche e quello del condannato a morte richiamano spunti in parte già proposti, è invece molto più interessante e inedito il tema del primo racconto. Un particolare marchingegno permette a un medico di sentire il dolore dei suoi pazienti. Le conseguenze sono immaginabili e ancora una volta segnalano che a essere inadeguate e perverse non sono le tecnologie, ma è l'uomo.

Una stagione di consolidamento dunque, sia sul versante concettuale e morale, sia su quello estetico, registico e recitativo. Venuto meno l'obbligo di proporre sempre nuove invenzioni, il serial può concentrarsi anche e di più sulla cura dei dettagli. Sono tutti episodi di spessore, rifiniti con cura estrema, più raffinati e levigati di quelli precedenti, che potevano far leva su idee più dirompenti. Anche la qualità degli attori è mediamente più alta.

C'è da ribadire un aspetto decisivo: se prima la tecnologia era quasi sempre portatrice di perversioni dell'animo, a prescindere, questa volta le perversioni sono quasi del tutto umane. Cioè, gli strumenti possono essere utilizzati anche solo a fin di bene, ma è sempre l'uomo a piegarli ai suoi scopi deviati. Per sociopatia, per manie di controllo, per arrivismo, per incontinenza o semplicemente perché lo stato di felicità non può mai durare a lungo. Ed è forse quest'ultimo il pungolo più velenoso: armarsi di diavolerie tecnologiche funziona, ma fino a un certo punto. L'animo umano è troppo scostante e ben presto si stanca, di qualsiasi cosa.

7.5/10

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