Un vagabondo, gironzolando tra le luci della città (di New York), s'imbatte in una bella fioraia cieca. Vorrebbe aiutarla, dato che, casualmente, viene a sapere che al di là dell'oceano un luminare dell'oculistica potrebbe ridarle la vista. Chiede aiuto a un riccone perennemente sbronzo (che il Vagabondo salva dal suicidio) che si dice disposto ad aiutarlo tranne quando è sobrio; finisce a combattere, per soldi, su un ring e poi alla fine, bhè, alla fine c'è la scena più bella e commovente dell'intera storia del cinema, che se uno non piange ad ogni visione dovrebbe andare, come minimo, a rifarsi il cuore.
"Era l'epoca di Luci della città, che un giorno vidi in fase di montaggio. La scena dove inghiotte un fischietto mi sembrò lunghissima, ma non ebbi il coraggio di dirglielo. Neville (un'interprete, ndr), che la pensava come me, mi disse che Chaplin l'aveva già tagliata. In seguito l'avrebbe ulteriormente accorciata. Chaplin era un uomo non troppo sicuro di sé. Esitava, chiedeva spesso consiglio. Dato che componeva la musica dei suoi film mentre dormiva, si fece installare accanto al letto un registratore alquanto complicato. Si svegliava a mezzo e fischiettava qualche nota prima di addormentarsi. Fu così che, in tutta ingenuità, ricompose da cima a fondo la musica della canzone La Violetera, cosa che gli costò un processo e un bel po' di soldi" (Luis Bunuel)
"Vedendo Luci della città mi resi poi conto della sua profondità come cineasta, perchè è un film che racconta l'amore meglio di qualunque altro trattato, libro o film sull'argomento. Rimasi davvero molto colpito da Chaplin, dal livello della sua interpretazione e della maestria con cui aveva affrontato i momenti drammatici del film" (Woody Allen)
La prima di "Luci della città" è datata 30 gennaio 1931 al Los Angeles Theatre. In platea, tra gli altri, Albert Einstein (che uscirà in lacrime accompagnato dalla moglie Elsa) e George Bernard Shaw. Il film, si badi, entrò in lavorazione nel 1928, subito dopo l'uscita de "Il circo" (altro capolavoro, forse un po' meno riconosciuto tale) e il sonoro esisteva già dal 1927, anno di uscita de "Il cantante di jazz". Chaplin, nonostante le forti pressioni dei produttori, realizzò un film muto con gag sonore, ma, sostanzialmente, muto. Un azzardo, dato che il pubblico, all'epoca, aveva voglia di voci, suoni e parole.
Su un giornale dell'epoca, datato 1930, si legge questo (il film citato è, ovviamente, "Luci della città"):
"Il film attualmente in lavorazione è giunto con successo alle sue fasi finali. Secondo quanto riferito dal Presidente Charlie Chaplin la decisione di realizzare il film senza dialoghi sarebbe stata molto sofferta. Egli avrebbe nutrito forti perplessità, condivise dai suoi interlocutori all'interno dell'industria cinematografica, circa l'accoglienza che il pubblico potrebbe riservare a un film muto. [...] Dopo una lunga discussione, in cui è emersa la partecipazione del consiglio d'amministrazione sulle sorti del film, è stato deciso di mantenere all'interno della società una quantità di capitale tale da essere pronti a far fronte alle perdite che un eventuale insuccesso potrebbe causare, e a llo stesso tempo, nel verificarsi di tale contingenza, accantonare abbastanza fondi per poter produrre un altro film".
Nessuno a Hollywood è più disposto a produrre film muti, ma il gruzzoletto messo via dalla società di cui Chaplin era presidente non servì. Il film fu un successo planetario e divenne, in breve tempo, un'opera inimitabile e imprescindibile.
A ridosso della Grande Depressione, Chaplin racconta una New York smarrita in cui ricchezza e povertà vanno, tragicamente, a braccetto. Fuori dalla villa del riccone ubriaco lavora la poverella a cui Chaplin vorrebbe ridare la vista; sulle strade della Grande Mela negozi di lusso si confondono con vagabondi spiantati costretti a dormire per strada (o su una statua, come la gag della folgorante prima sequenza del film). Chaplin dosa, con certosina maestria, i momenti comici (i più) e quelli drammatici, senza mai permettere che nessuno dei due prenda il sopravvento a livello emotivo e narrativo. Le gag sono lunghe sequenze portate all'esasperazione: la serata a casa del riccone col fischietto ingoiato; il match sul ring e tutti i disgraziati che, per due soldi, tentano la fortuna facendosi prendere a botte; il suicidio al fiume. Ed è notevole l'utilizzo degli esterni: è un film che vive di grandi momenti al chiuso, ma che esalta (e nel 1931 non era consuetudine) le vie e le piazze di New York, rappresentata, forse per la prima volta, in un modo tanto veritiero quanto brutale.
Nel 1972, Jean Mitry, nel suo "Tout Chaplin" (una delle opere letterarie più importanti sul mondo Chaplin) scriverà:
"Luci della città è decisamente il più bello tra tutti i film di Chaplin. Il più doloroso, il più crudele e il più dolce. Qui, la commedia sentimentale è elevata ai livelli della tragedia. E se ci sembra meno aspra di quella della Febbre dell'oro, è in realtà ancora più incisiva perchè al centro della storia non c'è più un uomo che si è smarrito tra i ghiacciai dell'Alaska, ma un uomo perduto tra gli uomini. Qui l'accettazione del Vagabondo all'interno della società si regge su un malinteso. Tra simili che non lo riconoscono [...] Rendendo la vista alla ragazza cieca sa che sta firmando la sua condanna".
"Luci della città" dura 83' minuti, poco, ma Chaplin ne girò, su per giù, nove ore, tagliando in fase di montaggio la qualunque, e di tutto quel girato nulla, pare, essere rimasto, tranne pochi minuti inseriti in "Unknown Chaplin", 1982 (Charlie Chaplin - City Lights Flower Scene Outtakes (youtube.com). Ma il suo perfezionismo rasentava, o meglio toccava, la follia, tanto che la famosa scena finale richiese la bellezza di 342 ciak divenendo così la scena più girata dell'intera storia del cinema.
E le testimonianze di tale perfezionismo sono innumerevoli. Da citare quella di Virginia Cherrill, la ragazza cieca.
A Kevin Brownlow e David Gill, i due chapliniani più influenti di sempre (autori anche del fenomenale "Unknown Chaplin") la Cherrill, in un lunga intervista, si confida:
"La cosa più stravagante è che a Charlie non importava quante riprese facesse. A dire la verità ho pensato spesso che ripetesse la stessa scena mille volte quando non sapeva come andare avanti, in attesa di un'idea. Era un perfezionista, noi non vedevamo la differenza, ma lui sì. Continuava a ripetere all'infinito una scena anche quando aveva girato abbastanza materiale da affondare la Queen Mary, finchè finalmente al suo: Questa è buona!, tiravamo un sospiro di sollievo e allora lui mi diceva: Beh, magari ne facciamo un'altra"
"Mi ricordo che durante le riprese della scena dell'incontro di boxe Chaplin si divertì moltissimo, e andò avanti per giorni, per settimane. Anche per noi fu una magnifica esperienza. Tutti in città vennero a guardare. Rappresentò per noi uno dei pochi momenti di vita sociale visto che a Hollywood, a quell'epoca, tutti amavano la boxe. La scena era talmente comica che ci divertimmo tutti moltissimo"
"Luci della città" ebbe successo ben oltre il 1931, e fu uno dei film più amati dalla cosiddetta Beat Generation negli anni '60. E fu una delle ultime occasioni in cui Chaplin si presentò al pubblico con bastone e bombetta (l'ultima volta sarà con "Tempi moderni", 1936) prima della grande avventura del sonoro e de "Il grande dittatore", 1940. Ma è un'altra storia.
In Italia il film uscì a fine 1931, il fascismo non ostracizzava ancora le opere americane, cosa che avverà di lì a breve (unica eccezione: Walt Disney) e fu un enorme successo anche da noi.
Come spiegare tale successo? Certamente l'opera è un capolavoro, di cui si è scritto e parlato a lungo. Certamente la commistione tra commedia e dramma è talmente ben riuscita che persino l'animo più insensibile difficilmente resisterà a non versare nemmeno una lacrima (nonostante Chaplin non sia mai ricattatorio nel suo voler commuovere il pubblico, lo porta a piangere, non lo costringe). Forse il motivo ce lo spiega lo stesso Chaplin. Alla prima di Los Angeles sussurra ad Einsten commosso: "Vede, applaudono me perchè mi capiscono tutti; applaudono lei perchè non la capisce nessuno".
Il linguaggio di Chaplin era, ed è, universale. Parla a tutti, poi, è chiaro, non tutti intendono capire, ma anche quest'ultimi si sentono, in qualche modo, toccati.
Il manifesto italiano del film diceva: "Riderete da ragazzi, piangerete da adulti". Io piangevo da ragazzo e continuo a farlo ancora oggi; rido ancora oggi e lo facevo anche da ragazzo.
Carico i commenti... con calma