Compilando, in modo anche serio (e ovviamente discutibile), una classifica dei migliori film di tutti i tempi, giochino a cui tutti prima o poi hanno ceduto, mi sono reso conto di aver piazzato, quasi inconsapevolmente, tre film di Chaplin nelle prime dieci posizioni (“La febbre dell'oro”; “Luci della città”; “Tempi moderni”, proprio in quest'ordine). Mi verrebbe da dire, e ci mancherebbe. Chaplin è stato il più grande di tutti, forse solo Welles gli stava dietro, ma più grande di Kubrick, di Hitchcock, di Fellini, di Kurosawa, di chi volete voi. Ma, accidenti, “Tempi moderni” è roba che a distanza di quasi cent'anni non è invecchiata di una virgola. Possibile?

Esce nel 1936, dopo quattro anni di lavorazione. Il suo film precedente, “Luci della città” era uscito nel 1931. Il sonoro esiste da otto anni, il primo film in tal senso è “Il cantante di jazz” del 1928 e tutti usano il sonoro ormai, tranne Chaplin, che lo detesta, fa fatica a capirlo e crede che le parole, in un film, non siano poi così importanti. Solo nel 1940, dodici anni dopo, con “Il grande dittatore” ne coglierà l'opportunità, parlando forse troppo. E “Tempi moderni” è un film politico, inutile girarci attorno, tanto che alla sua uscita andò maluccio, l'autore venne accusato di essere un pericoloso comunista (figuriamoci!) e persino i critici più avveduti gli scagliarono pietre micidiali. Giusto ricordarne alcuni: Baldelli, uno dei più noti critici italiani dell'epoca (va detto che siamo in pieno regime fascista che, però, sorprendentemente fece correntemente uscire il film in Italia), lo accusò di “nichilismo forzoso”, aggiungendo “Chaplin non odia questa o quest'altra Società, ma la Società”; Bazin, in Francia, scrisse: “[...] Chaplin non possiede alcuna coscienza di classe e se egli è con il proletariato, cioè è dovuto al fatto che anche lui è una vittima della società come è, e della polizia”. Un disastro.

“Tempi moderni”, che ha dei piccoli inserti sonori, ma Chaplin utilizza il sonoro più come un prolungamento delle gag (tranne la celebre “Titina”) è diviso in cinque atti speculari, tutte variazioni sul tema. Nel primo atto, che inizia col famoso montaggio dei maiali che entrano in un porcile e degli operai che entrano, accalcandosi, in una fabbrica (metafora eloquente) si rappresenta l'impossibilità dell'uomo comune, l'operaio Chaplin, nell'adattarsi alla nuova realtà, alienante e fantascientifica, in cui tocca avvitare più bulloni possibili e utilizzare una micidiale macchina robotica per mangiare e accorciare i tempi della pausa, impossibile sopravvivere al Capitale; nel secondo atto, il più politico, Chaplin si ritrova a dover fare i conti con la sommossa operaia, la coscienza politica e il riconoscere il proprio status di sfruttato, anche se Egli, in fondo, non lo capisce davvero, anche se, suo malgrado, si ritrova nel bel mezzo di una manifestazione di lavoratori (e qui compare una bandiera rossa, nonostante il film sia girato in un magistrale B/N, quella bandierà lì non può che essere rossa):

“Charlot raccoglie la bandierina caduta e corre dietro al camion che l'ha perduta, sventolandola. […] Non è la manifestazione che si organizza e accoda a Charlot, è Charlot che, a propria insaputa, si trova alla testa di una manifestazione che era già in corso” (Glauco Viazzi)

Nella terza parte comincia la voglia, e la possibilità, di evadere dalla più bieca routine operaia, e qui Chaplin incontra Paulette Goddard tanto che i due fuggiranno in una capanna su un fiume; la quarta parte è la rivalsa, ma pur sempre in campo lavorativo, non ancora sentimentale, e qui Chaplin trova lavoro come guardiano notturno in un magazzino, lavoro meno alienante, almeno così sembra, fino all'arrivo dei ladri (qui compare la celeberrima scena dello schettinaggio, liberatoria e simbolo di un passato che si vorrebbe dimenticare, tra i pezzi più struggenti e indovinati dell'intera filmografia chapliniana); la quinta parte è l'ennesima possibilità di ripartire, qui come cantant-cameriere, ma i guai dell'amata li rimettono di nuovo in fuga, verso un finale che molti hanno letto in modo forse fin troppo politico (in un film, ripeto, comunque tale) e cioè i due che s'allontanano, alla ricerca di un futuro migliore, con un sole davanti a loro che si è voluto leggere come il proverbiale Sol dell'Avvenire, e da qui molte, ma non tutte, le connotazioni comuniste attribuite a Chaplin.

E' uno dei tanti film di Chaplin in cui l'amore aiuta a far crescere il protagonista ma non lo toglie mai definitivamente dai guai (si vedano, in questo senso, “Il circo” (1928) e “Luci della città”), eppure è il primo film in cui possiamo assistere alla fine di Charlot inteso come omino col bastoncino, in mezzo ai guai, estraneo alle vicende del mondo e sempre pronto a subirle senza capirle. Chaplin è qui un uomo dei suoi tempi, un lavoratore, un individuo che conosce e comprende la realtà della sua epoca, modificato persino nell'aspetto (via la chioma folta sostituita da una scriminatura diversa) e bofonchia una canzoncina senza senso, dando al pubblico dell'epoca la possibilità di ascoltare la propria voce, cosa mai accaduta fino ad allora, ma anche in questo caso è uno sberleffo:

“[...] Canta una canzone, ma le parole che pronuncia sono senza senso: è uno sberleffo al parlato, che è una conquista del progresso tecnologico (le sole parole del film sono quelle pronunciate da una macchina). Si tratta di una dichiarazione implicita di teoria: Chaplin dimostra che il comico (e quindi il cinema, di cui il comico è la forma linguistica per lui specifica) sta soprattutto nell'immagine. E si deve anche notare come nel suo stile sia sia nel frattempo affinato l'uso della macchina da presa e dei suoi movimenti” (Giorgio Cremonini)

Si puo' andare ancora più a fondo, e lo fa Barthes, critico francese che dice: “La sua anarchia, discutibile politicamente, in arte rappresenta la forma forse più efficace della rivoluzione”. Tolto il discutibile politicamente che è una connotazione critica figlia dei tempi, è altresì vero che Chaplin qui opera una rivoluzione concettuale impensabile a quei tempi, con un Europa stretta fra fascismo e nazismo, l'autore mette l'accento su una condizione operaia insostenibile lontanissima dall'apparente, e bugiarda, concezione che i regimi autoritaristici raccontavano della classe operaia, in apparenza ne erano vicini, nella realtà ne erano lontanissimi. Ma il discorso vale anche per gli USA democratici dell'epoca, quelli rooseveltiani:

“[...] Il ritratto che Chaplin ci dà del proletariato nel 1936 rifiuta la facile (e falsa, negli USA) illusione della lotta di classe. E' un proletario cui manca la coscienza di essere proletario; l'ideologia borghese lo ha già invaso, in modo definitivo” (Giorgio Cremonini)

Di certo Chaplin non è un ottimista nato, e “Tempi moderni” lo dimostra appieno, nonostante il finale speranzoso (ma è, forse, una speranza più rincorsa che idealizzata) ma le invenzioni tecniche in questo film sono strepitose: lo spazio filmico è sempre ristretto, quasi a raccontarci come la vita sia una eterna “galera” (nella quale il nostro, nel film, finisce oltretutto), ma quando la follia esplode, quando non ci si contiene più, predominano i campi larghi. E nulla, nulla, è davvero speranzoso, compresa la sequenza dei pattini con quel fondo di inquietudine e di incubo che sarà ancora più esplosivo nel successivo “Il grande dittatore” nella meravigliosa, e celeberrima, sequenza del mappamondo.

Un capolavoro che sa parlare agli uomini di oggi come lo sapeva fare all'epoca della sua uscita, ma forse oggi con una coscienza maggiore, anche se il disfattismo della società odierna è ben peggiore, e non avrebbe potuto essere altrimenti, a quello chapliniano del 1936.

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