Loverman - Hollywood 1946, l'ultimo volo dello sparviero

Charlie Parker è stato il più grande musicista della storia del jazz moderno. Nessuno, ancora oggi, ha il coraggio di mettere in discussione quest'affermazione. Ha fatto progredire questa musica da tutti i punti di vista: melodico, ritmico, armonico. Ha scatenato in tutti i musicisti venuti dopo di lui il bisogno di ridiscutere completamente la loro arte, perché l'arte funziona così, cresce e si evolve se qualcuno pone problemi. La musica di Charlie Parker pone problemi e le trascrizioni dei suoi assolo si studiano in tutte le scuole di jazz.

Per certi aspetti, la sua storia assomiglia a quella di Mozart, nel senso che entrambi hanno brillato di una luce così sfavillante che nessuno è mai riuscito a spiegarla compiutamente. Se poi teniamo in conto che Parker fu tossicodipendente eroinomane per la maggior parte della sua vita, la faccenda si complica ulteriormente. La parola "genio" è una toppa per risolvere ciò che sfugge ai tentativi di spiegazione di storici e studiosi.

Come per Mozart, non c'era nell'arte di Parker nessun confine tra ideazione ed esecuzione della musica. Inoltre, egli mostrava una infinita abilità di comunicare emotivamente con i suoi ascoltatori. Ogni musicista jazz, ancora oggi, sogna di avvicinarsi anche solo un poco a quel grado di empatia con il pubblico. Qui di seguito si vogliono raccontare i 3 minuti e 23 secondi peggiori della sua carriera, secondo una metà del mondo. Secondo l'altra metà, i migliori. Per farlo bisogna partire da dove tutto iniziò. Kansas City.

Charlie Parker nacque a Kansas City il 29 agosto 1920. Nel 1933 la madre gli regalò il primo sassofono e iniziò a studiare musica. Fu nel 1935 che Parker decise di dedicarsi professionalmente e definitivamente alla musica iscrivendosi al sindacato dei musicisti professionisti. Una notte di quell'anno, nell'ombra di uno di quei locali schifosi dove si faceva il jazz, pieni di gangsters e spacciatori, qualcuno gli offrì dell'eroina. Così iniziò lì a Kansas City nel 1935, a soli 15 anni, la sua carriera di musicista e tossicodipendente.

L'idea di individuare nella tossicomania la prevalente chiave di lettura della storia di Bird (questo, da sempre, il soprannome di Charlie Parker) mi ripugna, lo giuro. Però è innegabile che la sua vita fu drammaticamente e costantemente segnata dalla droga e dall'alcol. Come una sorta di malattia contratta da ragazzo, una malattia dalla quale si era rassegnato a non guarire più. Parliamoci chiaro, la vita di Bird, terminata nel 1953 a soli 33 anni, fu un vero inferno. L'inferno sceso sulla terra. Non mi vengono parole diverse.

Ma Bird non era il solo a bucarsi nel camerino prima del concerto. Quasi tutti i grandi artisti del jazz di quell'epoca, comprese le cantanti donne, avevano problemi di tossicodipendenza da eroina. Si facevano come dannati. Vite infernali che finivano presto e malamente. I ragazzi punk del 1977 sembravano monaci francescani in confronto. E più erano grandi artisticamente, più sopportavano vite da incubo. Un fenomeno sociologico che continuerà sino agli anni '70 lasciando sul campo parecchie vittime.

Ma perché? Come è possibile una "peste" di queste proporzioni? E perché proprio i jazzisti? Io un idea l'avrei. Alla sua base è posto un sogno infranto e una prospettiva di rassegnazione.

In quel 1945 i neri erano tornati dal fronte esattamente come i bianchi: avevano combattuto la seconda guerra mondiale e partecipato alla difesa della patria versando il loro contributo di sangue. Vedevano in questo sacrificio un buon motivo per pretendere e ottenere una volta per sempre la fine della discriminazione e l'acquisizione dei diritti umani e della parità. Per gli afroamericani, quindi, il momento era decisivo. Pure le arti, musica, letteratura, si sentirono chiamate a responsabilità sul problema.

Proprio in quel 1945 Bird si trovava al centro di un manipolo di musicisti, Dizzy Gillespie, Art Blakey, Charles Mingus, Bud Powell, Max Roach, Thelonious Monk, impegnati in una grande manovra artistica: stavano cercando di trasformare la musica jazz, strappandola da mero fenomeno connotante in modo "pittoresco" il popolo afroamericano, per elevarla a linguaggio con una sua piena dignità artistica. Questi musicisti avevano in mente un complesso, meditato e ardito sistema estetico, da mettere a punto mediante una serie di progressivi rinnovamenti e perfezionamenti. Il be-bop, cioè il jazz moderno, voleva competere con Ravel e Stravinsky.

L'atto di offrire al mondo intero, anche quello dei bianchi, un nuovo linguaggio artistico moderno e in grado di lasciare il segno nella storia della musica del '900, un linguaggio individuato e messo a punto esclusivamente all'interno della cultura afroamericana, appariva come un gesto realmente rivoluzionario. Insomma, questa musica poteva essere uno strumento di rivoluzione nella lotta per i diritti civili. Forse persino il perno stesso della rivoluzione.

E' così che il jazz si caricò di una responsabilità che non era solo musicale, ma di lotta sociale. Bastarono pochissimi anni per verificare il fallimento sostanziale di questo sogno. La discriminazione razziale permase, anzi, peggiorò. Il jazz venne certamente riconosciuto come forma artistica, e questo fu il risultato della grandezza di personaggi come Bird, ma ci si rese conto che non era in grado di compiere rivoluzioni sociali. Al limite rivoluzioni artistiche, ma niente di più. Poi nacquero correnti interne, rivoli di dispersione, dal be-bop all'hard-bop, dall'hard-bop al cool, dal cool al free jazz, e poi il west coast jazz, la bossa nova, il soul jazz, il jazz rock, la fusion. E tra diverse correnti erano litigi, polemiche, insulti.

Quelli che avrebbero voluto essere gli alfieri della grande rivoluzione vennero appellati "I grandi solisti" della loro epoca. Solisti! Mancava una scuola compatta. Essi erano fenomeni isolati che si aggrappavano ciascuno al salvagente della propria ispirazione, del proprio genio. Mancò un disegno globale. Fatto sta che non si realizzarono rivoluzioni. Ci fu certamente una lotta per la parità tra bianchi e neri, ma della quale la vittoria non si intravedeva neanche lontanamente all'orizzonte. E nell'ambito di quella lotta, il jazz poteva fare molto poco.

Io credo che questo sia il quadro nel quale tentare di spiegare, su un piano collettivo, il fenomeno dell'eroina e della tossicodipendenza di questi artisti. L'eroina come unico modo possibile per comunicare al mondo il fallimento di un disegno entusiasmante. Eroina come stigmate di sconfitta e rassegnazione.

Poi naturalmente contavano anche le storie di ciascuno, la dimensione personale, i quartieri dove uno è cresciuto, quei vicoli del Bronx adombrati da scale antincendio aggrappate a vecchi palazzoni affollati e malsani, e poi Harlem, con i suoi locali lerci dove si suonava il jazz, le cattive amicizie, cose di questo genere. Ma non credo di sbagliarmi individuando in questa grande delusione sulle potenzialità della rivoluzione be-bop la cornice entro cui iscrivere il fenomeno del vizio mortale dell'eroina tra tutti questi musicisti. In ogni caso, la descrizione del quadro generale ci evita di cadere nell'errore di qualificare Bird come "genio maledetto", luogo comune insopportabile e fuorviante. Mai nessun musicista fu così drammaticamente calato nella sua epoca, nel suo tempo, quanto Bird, tanto calato da portarne le stigmate.

Ora che è chiara la sua grandezza e la sua croce, torniamo alla storia dei 3 minuti peggiori o migliori, a seconda dei punti di vista, della carriera di Bird.

Verso la fine del 1945 Bird viveva a New York ed era diventato, nel mondo del jazz, una leggenda vivente. Gli altri artisti lo consideravano una specie di semidio. In autunno, il suo amico e grandissimo trombettista Dizzy Gillespie ricevette un'offerta per andare a suonare in un locale di Los Angeles. Era un eccellente ingaggio e, malgrado tutto quel che sapeva di Charlie e dei suoi problemi con la droga, Gillespie scelse di avere Parker come solista, e gli propose di venire con lui in California. Fu così che iniziò uno dei periodi più tragici e tristi della vita di Charlie Parker.

Il fenomeno è ben noto tra i consumatori di stupefacenti. Fuori dalla propria città un tossicodipendente è perduto. I "giri" della nuova città non lo fanno entrare, perché in quell'ambiente la diffidenza prevale su qualsiasi altra ragione. Il forestiero fatica terribilmente a trovarsi le sue dosi. Se mai riesce a trovarle, è costretto a strapagarle, perché in quell'ambiente, oltre alla diffidenza impera l'egoismo. Si approfitta dello stato di bisogno.

Così Bird in California non tardò a trovarsi in difficoltà a procurarsi la sua droga quotidiana. L'unico spacciatore che aveva trovato, che diventerà lo spacciatore più famoso del mondo perchè Bird intitolerà col suo nome un suo pezzo famosissimo, tale Emry Byrd, detto "Moose the Mooche", non sempre era disponibile. Quando poi Moose the Mooche venne arrestato, la situazione di Bird precipitò tragicamente.

Bird non riusciva a trovare eroina e ricorreva a grandi quantità di alcol per sopportare i sintomi della crisi d'astinenza. Poi scomparve dalla circolazione. Il collega trombettista Howard McGhee lo ritrovò che abitava in un garage riadattato senza riscaldamento. Parker viveva nell'umidità e nella penombra come un ratto, faceva letteralmente spavento. McGhee se lo portò a casa dove Bird rimase con lui e sua moglie Dorothy.

Per trovare rapidamente denaro, Parker e McGhee convinsero il produttore Ross Russell, titolare dell'etichetta discografica Dial a organizzare una seduta di registrazione extra, e ad anticipare a Bird immediatamente i proventi dei diritti. Ovviamente avere il più grande sassofonista dell'epoca nel proprio studio di registrazione era un lusso da non perdere e Russell accettò di buon grado la proposta. Nacque così la più tragica seduta di registrazione di tutti i tempi, svoltasi negli studi della Dial in Hollywood, California, il 29 luglio 1946.

In studio, ad attendere Parker, oltre a Ross Russell, dietro il vetro c'erano Marvin Freeman, socio di Russell nella Dial Records, suo fratello Richard, psichiatra fortemente voluto da Russell, molto preoccupato per lo stato psicofisico di Parker, il giornalista e corrispondente di "Billboard" Elliott Grennard, che in seguito pubblicherà un celebre racconto sull'accaduto intitolato "Sparrow's Last Jump".

I musicisti, oltre a Parker, erano l'amico Howard McGhee alla tromba, Jimmy Bunn al pianoforte, Bob Kesterson al basso e Roy Porter alla batteria. Boppers di razza. Parker arrivò con pesante ritardo. Si presentò in uno stato che preoccupò immediatamente tutti i presenti. In seguito Parker dichiarerà: "dovetti bere un litro di whisky per portare in fondo la seduta".

Nel corso della seduta Bird era a malapena in condizioni di soffiare nel sassofono e premere le chiavi, ed era affetto da spasmi muscolari che causavano involontari movimenti mentre cercava di suonare. Il primo grave errore però lo fece lo psichiatra Richard Freeman, il quale somministrò a Parke ben sei compresse di fenobarbitolo, probabilmente per controllare gli spasmi, ma il farmaco si pasticciò con l'alcol peggiorando le cose.

Registrarono i primi 4 brani: due pezzi veloci e due lenti. Nei brani a tempo mosso Parker non riusciva a seguire i passaggi d'insieme. Al momento degli assolo riuscì a produrre interrotti surreali frammenti di melodia. L'effetto era spaventoso. Nei brani lenti Bird ottenne un pò più di continuità, pur essendo i risultati ugualmente inquietanti all'ascolto.

La seduta sembrava destinata al fallimento. Era materiale inascoltabile che umiliava la grandezza di Bird. Non tentarono neanche di ripetere ulteriori takes dei brani eseguiti: buona la prima, per così dire. I presenti erano tutti imbarazzati e Parker stesso si rendeva conto che il suo stato psicofisico era incompatibile con la produzione di musica. In studio regnò il silenzio per un paio di minuti, poi improvvisamente Bird chiese di eseguire "Loverman".

Loverman era una bellissima e malinconica canzone, composta nel 1941 da tre bravi songwriters, Davis, Sherman e Ramirez, poco prima della loro partenza per il fronte. La canzone era stata affidata a Billie Holiday, che ne aveva inciso una splendida versione nel 1945. Il disco ebbe grandissimo successo e "Loverman" era divenuto uno standard eseguito da moltissimi jazzisti. La proposta di Bird venne accolta da tutti, per quanto nessuno più credeva che quel triste pomeriggio avrebbe più prodotto frutti. La descrizione dettagliata dell'esecuzione venne fatta alla perfezione dal patrono della seduta Ross Russell nel suo libro "Bird Lives!"(oltre che, cinematograficamente, nel film "Bird" di Clint Eastwood). Vale la pena di riportare le parole di Russell.

« Ci fu una lunga introduzione pianistica ("lunga" , nel bebop dell'epoca, voleva dire 7 secondi!), che sembrò interminabile, da parte di Jimmy Bunn, che scandiva il tempo in attesa del sassofono. Charlie aveva mancato l'entrata. Con alcune battute di ritardo, finalmente entrò. La sonorità di Charlie si era rinfrancata. Era stridente, piena di angoscia. In essa c'era qualcosa che spezzava il cuore. Le frasi erano strozzate dall'amarezza e dalla frustrazione dei mesi passati in California. Le note che si susseguivano avevano una loro triste, solenne grandiosità. Sembrava che Charlie suonasse con automatismo, non era più un musicista pensante. Quelle erano le dolorose note di un incubo, che venivano da un profondo livello sotterraneo. Ci fu un'ultima strana frase, sospesa, incompiuta, e poi silenzio."

Durante l'assolo di Parker, che durò pochi secondi, il trombettista McGhee ascoltò a testa china, perfettamente consapevole dello sfacelo umano e del dolore che urlavano quelle note di sassofono. Quando il pezzo terminò ci fu un attimo di silenzio, quelli nella cabina di controllo erano imbarazzati, disturbati, profondamente commossi. Russell disse all'interfono qualcosa del tipo "Ok Charlie, molto bene". Parker, per tutta risposta sganciò il sassofono e lo lanciò contro la vetrata. Bird venne poi riaccompagnato in albergo. Ma il delirio non era ancora finito, la serata era ancora lunga.

Quella notte c'era parecchia gente nella hall dell'hotel. Era appena terminata la riunione di non so che consiglio d'amministrazione. Musichetta del piano bar, gente che parlotta sorseggiando brandy, luci tenui. Improvvisamente si zittirono tutti, in tre secondi calò il silenzio: Charlie Parker aveva tranquillamente attraversato la hall diretto al bancone del bar per ordinare del wisky. Tranquillamente, però anche completamente nudo. Poi l'allarme antincendio interruppe il silenzio.

Quando McGhee arrivò all'hotel, la polizia era già arrivata e aveva portato Parker al Camarillo Hospital. Lì raggiunto dal trombettista, Parker si fece trovare relativamente lucido: "sto bene amico. Fammi dare i miei vestiti, sono pronto ad uscire". McGhee dovette spiegargli che era in arresto e che le cose non erano così semplici. Oltretutto Parker, prima di scendere nella hall con l'uccello di fuori, aveva dato fuoco a un materasso (forse involontariamente con una sigaretta, và a sapere) scatenando un incendio. McGhee però, dalle occhiate maliziose e da un paio di risatine dei poliziotti, ebbe la sensazione che Bird fosse stato arrestato per esibizionismo.

Infatti, di fronte al giudice, Parker fu accusato di atti contrari alla decenza, resistenza all'arresto e incendio doloso. Ebbe la fortuna di trovare un giudice appassionato di jazz, allibito dal trovarsi di fronte come imputato nientemeno che Charlie Parker, la leggenda vivente. Bird beccò sei mesi da trascorrere al Camarillo Hospital, la pena più leggera possibile tra quelle previste dal codice per quei reati. Alla fine dell'udienza, il giudice, con un certo imbarazzo e senza dare troppo nell'occhio, aveva ottenuto da Parker anche un autografo su una fotografia.

In ospedale Bird si rimise fisicamente grazie ai pasti regolari, attività fisica e nessuna possibilità di usare droga. Ross Russell e i colleghi musicisti di Los Angeles andavano a fargli visita. Fu un periodo buono per Charlie Parker, ma formidabile per l'ospedale Camarillo e per i suoi degenti, che ebbero la fortuna di sentire frequentemente piccoli concerti improvvisati in sala mensa. Piccoli concerti, ma con Charlie "Bird" Parker, la leggenda del jazz, al sassofono. Non capita tutti i giorni una fortuna simile.

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