Non starò qui a ribadire come Charlie Parker abbia scompaginato il tragitto del jazz, una carica di dinamite sui binari di una tranquilla e rigogliosa locomotiva. Nè ripercorrerò pedissequamente una delle più struggenti, pulsanti biografie mai intrecciate alle volute di un ottone. Quella registrazione, quella voglio provare a raccontarvi, sebbene penne ben più ispirate ne abbiano già detto a dovere. Ma tant'è, la ascolti e ti commuovi per l'ennesima volta, lo cerchi rapido nel databaser, e al "DE-Sorry" non hai alternativa al buttar giù due parole su quel 26 luglio 1946.

Incarnazione dell'eccesso, depositario del genio, plenipotenziario del cinguettio, "Bird" ha soffiato nel sax sè medesimo, sempre. E fu un bel soffiare. A ben pensarci era una valvola, quel sax che soffiava. Troppo prodigio in quel corpo, troppo il dolore di essere umano, troppa roba transitava in quelle membra, impossibile placare l'urgenza di buttarla fuori. Non che non ci abbia provato, Charlie, a placare quella febbre. Tutto in lui era smodato, in primo luogo la ricerca del piacere dell'anima, passando per il corpo. E così il cibo, e l'alcool, e la droga, e le donne, era famelico, Bird, come un uccello senz'acqua in una gabbia d'agosto, ed era sempre gabbia d'agosto, e l'acqua non bastava mai. E allora soffiare, sputare in quel sax, sbuffare vapore altrimenti si scoppia. Non fu un intrattenitore, mai gigioneggiò come Armstrong, nè blandì le folle come Benny Goodman, no, niente morbido swing, niente note ruffiane a lenire gli affanni del dopoguerra in un dondolio di anche. Bebop, ecco come si chiamò la musica di Charlie Parker, fieramente osteggiata dai custodi della tradizione, bollata d'inconcludenza, fondata su una serie di gorgheggi senza scopo apparente, antimelodica e complicata da fischiettare. Ma quanto ce n'era, nel vapore di quel sax, ah se è per questo Parker ci metteva tutto, non che lo volesse, era d'obbligo, era il soffio della balena.

Aveva 25 anni quando arrivò a Los Angeles con Dizzy Gillespie, i prìncipi del bebop, insieme, a raccogliere gli improperi dei conservatori e gli entusiasmi dei (pochi) pionieri. La droga era un assillo perenne, non era facile trovare l'oppio nella nuova piazza, ma Bird seppe innalzare a colpi di fiato un congrega di musica ed eroina: il "Finale" divenne grazie a lui il club dei balocchi, un postribolo dove si suonava jazz da infiammare tutta la West Coast, e si comprava la droga migliore. Quando la Legge intervenne, i balocchi smisero di danzare, e al Passero, per un attimo più lungo degli altri, mancò l'alito. Nel fondo più nero di quell'attimo, la Dial ebbe l'insana idea di accontentarlo: voleva quattro nuove persone attorno, per un'incisione che doveva essere diversa. Ma gli uomini dell'etichetta fiutarono invero il pericolo, gli attaccarono alle costole uno psichiatra, lì in sala. L'allegra brigata fu completata da tale Elliott Grennard, giornalista che documentò poi in una splendida novella quel 26 luglio del 1946 quella seduta distorta e malata. Charlie Parker imbracciò il suo strumento come una mamma in lacrime prende il suo bimbo. Di-sperato, privo di luce, una linea interrotta che non-è-più. Solo il respiro che esala da un sax, solo così si può tirare avanti fino al prossimo bagliore, alla prossima fragile requie. Tragica fu quella seduta, ma non dovette mancare una certa drammatica comicità. Lo psichiatra non ci capiva proprio nulla, Bird sudava e lui gli dava pasticche, Bird tremava eppure doveva suonare, e Ross Russell, boss della Dial, era lì impotente, e Grennard pigliava appunti. Alla fine si incise, e soprattutto si pubblicò il tutto. "Max Making Wax", "Lover Man", "The Gypsy", "Bebop". In queste quattro tracce c'è il ritratto di un genio nudo e sanguinante, una delle più sconvolgenti testimonianze dell'arte del Novecento. Perchè è l'anima del jazz, soffio che narra, racconto della vita, storta, gonfia d'estasi o morta. Capolavoro deforme, così lo ha definito Arrigo Polillo, devo citarlo, non avrei saputo dir meglio.

Non proverò a contaminare quella musica con le mie parole, vi invito solo a soffermarvi sull'incommensurabile strazio di The Gypsy, ma forse nemmeno questo dovevo dirvi. Orbene, The Complete Dial Sessions si compone di quattro CD, esito delle nove sedute di registrazione che danno conto di due anni drammatici della vita di Charlie Parker. Ma dramma e ispirazione, si sa, sono compari. In questo cofanetto si trova, oltre a quella seduta, musica seminale, ma ancor più, celestiale: basti dire che vi suonano arnesi come Davis e Gillespie, basti dire che vi sono perle in fila come Ornithology, Embraceable You, e tante altre, tutte in più esecuzioni (tranne, per ovvi motivi, le quattro tracce di quel 26 luglio, tutte in one take). Basti dire dell'incommensurabile valore di cronaca delle Sessions (ad esempio, la splendida "Relaxin'at Camarillo" racconta il ricovero psichiatrico di Parker, avvenuto, manco a dirlo, dopo La Seduta). La qualità audio molto "anni'40", lungi dal costituire un fastidio, aggiunge pregio e spessore all'ascolto (ma è solo un parere).

Mi fermo, credo di aver detto tutto, temo di aver detto niente, so per certo di aver detto troppo, per i miei gusti. Cancellate tutto e pubblicate questa: "Imprescindibile cofanetto, contiene la più commovente esitazione della storia del jazz, l'ingresso follemente ritardato del sax in "Lover Man". Racconto tremebondo di un uomo toccato da Dio, forse troppo bruscamente. Quell'uomo morì a 35 anni, ma chi lo seppellì gliene dava 53".

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