A Venezia, quest'anno, un bel "mucchietto" di film avevano come tema principale il conflitto israelo-palestinese. Giusto: il cinema ha, tra gli altri compiti, il dovere di fotografare (e fermare) la realtà. Due fra questi hanno colpito maggiormente critica e pubblico: "La voce di Hind Rajab" di Kaouther Ben Hania (Leone d'argento) e il qui recensito "Tutto quello che resta di te", di Cherien Dabis (al suo terzo lungometraggio, a 48 anni), regista, sceneggiatrice e (a volte) attrice nata nel Nebraska ma di origini palestinesi.

Di film riguardanti le ataviche vicende del Medio-Oriente ce ne sono a bizzeffe, eppure, dopo la rivoluzione gentile di Asghar Faradi che ha portato stili, toni e ritmi occidentali in un cinema lontanissimo da noi, questi tipi di film mi sembrano più a fuoco e, cosa non da poco, più comprensibili. E questo della Dabis mi sembra posso entrare di diritto tra i migliori del suo genere. Lontanissimo da un certo documentarismo (e da una certa sonnolenza di ritmo) che ammantava l'opera di Amos Gitai o Jafar Panahi (ne cito due a caso, i due più importanti), quest'opera pare un film americano, nello stile e nei modi, "accidentalmente" ambientato in Palestina, in cui non si avverte né la fatica di una trama che si snoda dal 1948 al 2022 né i 145' di durata.

E', in soldoni, una lunga e quasi epica saga familiare, che parte dalla prima occupazione israeliana a Jaffa nel 1948, e dunque le vicende di una famiglia palestinese a cui viene portata via con la forza la casa e la terra dove sorge l'aranceto di famiglia; la deportazione del padre e il suo successivo ritorno in famiglia, dopo la fuga in un altra città della propria famiglia; piombiamo nel 1978, con la Cisgiordania occupata, il figlio cresciuto e diventato a sua volta padre (professione: maestro elementare), la difficile convivenza col genitore divenuto anziano e (apparentemente) perso nella memoria e nei pensieri e l'esercito israeliano che, al solito, controlla le strade del paese in modo violento e sadico (la sequenza in cui viene puntato il fucile verso il padre con figlioletto al seguito con l'intento non di ammazzarlo, bensì di umiliarlo davanti al pargolo spaventat è da cuore in gola: siete avvisati); nel 1988 il figlio del protagonista cresce, ha vent'anni, odia gli israeliani e partecipa, quasi casualmente, ad una manifestazione a favore del popolo palestinese, qui viene colpito da un proiettile, finisce in coma e muore. Qui inizia tutto un secondo film, che tocca temi morali altissimi, quale, su tutti, quello della donazione degli organi che potrebbero, inevitabilmente, finire per far vivere qualche bambino ebreo. E ciò accade. Eccoci quindi ai giorni nostri, nel 2022, con la madre del ragazzo ucciso intenta a parlare con Ari, un uomo che tempo prima avevano visto bambino e che ora vive, da ebreo, con il cuore di un palestinese. Finale amarissimo, e poetico al tempo stesso.

Inizialmente pensato per essere girato sui luoghi reali, causa avvenimenti di Gaza, è stato girato tra Cipro, Giordania e Grecia. La Dabis racconta una lunga saga familiare sullo sfondo delle ripetute, e sempre più violente, occupazioni israeliane su suolo palestinese, ma lo fa con un tono da cinema occidentale capace di infondere al film un ritmo martellante dall'inizio alla fine, persino laddove, nel finale, inevitabilmente il film rallenta l'azione per dedicarsi ai temi più alti, e dunque più corposi, dell'intera opera. Alcune sequenze sono da antologia, oltre alla suddetta citata ci sarebbe da ricordare anche la lunga sequenza in cui ai genitori vengono richiesti un'infinità di moduli per poter effettuare una TAC al figlio appena trasportato in ospedale. Va detto però. che a sorprendere sono soprattutto i due toni che il film assume nella sua (lunga durata): le vicende del 1948 sono tragiche ma posseggono una verità storica che le rende (quasi) filologiche; le vicende del 1978 sono venate, addirittura, da una vena umoristica affidata al capofamiglia, qui già nonno, che per tentare di esorcizzare la prigionia subita in gioventù istruisce il nipote sulla grandezza della Palestina (e sui "maledetti figli di puttana" che la occupano) stemperando ogni situazione con una battuta, un motto sarcastico; gli accadimenti del 1988 sono tragici e non c'è possibilità di sorriso, il groppo in gola soprende lo spettatore e lo costringe ad una realtà che vorremmo dimenticare; il 2022 è poetico, è l'epoca della vecchiaia, con i due protagonisti settantenni che ritornano a Jaffa, la trovano cambiata, rivedono la vecchia del casa di lui e, come in un film chapliniano, si avviano (e soprattutto si avviano le loro ombre) verso il mare, e una poesia, che durante il film viene recitata spesso, ricorda la grandezza della propria terra. Eppure la regista, nonostante accusi l'occupazione israeliana, non addita a colpevoli gli israeliani di oggi, a cui nel finale ricorda che il loro dolore (la Shoah) è anche il loro dolore, ma che forse, in alcuni casi, tale sentimento non pare ambivalente.

Ad un cast ottimo, ad un reparto tecnico eccellente, forse difetta una certa "leggerezza" registica che rende il film, in alcuni punti, un po' debole narrativamente (e alcune sequenze fin troppo "commentate" dalla musica, comunque soft, in sottofondo) ma che, tra echi di cinema d'impegno civile (e ce n'è sempre bisogno, oggi, forse, più che mai) e riferimenti ad altro cinema (evidente quello al Kurosawa di "Vivere, 1952), c'è abbastanza carne al fuoco e pochissimo fumo: come detto, uno dei film più belli su un argomento tanto delicato quanto fondamentale in questi tempi. Il gusto occidentale, che si sposa benissimo a quello orientale, è ben visibile anche in alcune scelte scenografiche: su tutte, spicca quella iniziale in cui la casa della famiglia protagonista del film ha qualche tocco mediorientale ma pare più un simil-ranch tipico dei western americani degli anni '50.

Imperdibile, fra i migliori usciti negli ultimi anni. E, ça va sans dire, da gustare in lingua originale coi sottotitoli in italiano.

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