La grande casa al 2640 di Steiner Street è stata la prima tappa della mia visita a San Francisco. E la passione per questo film era già vecchia di venticinque anni.

Amo il cinema e ci sono decine di lungometraggi che adoro ma dopo trent’anni esatti, “Mrs.Doubtfire” rimane tra i miei preferiti. Quando un film e il suo attore protagonista ti emozionano ogni volta come fosse la prima, non servono altre spiegazioni.

Robin Williams ci ha lasciati troppo presto dopo averci dato tantissimo. Rivederlo ogni volta sul piccolo schermo, vuol dire sentire quella punta di malinconia già dai titoli di testa. Figuriamoci cosa accade con quelli di coda.

Questo film senza tempo è pieno zeppo di citazioni uniche (il doppiaggio non le annacqua affatto ma deve essere visto in lingua originale), di momenti esilaranti e di musica immortale. Da quel febbraio del ’94 (quando arrivò nelle sale italiane), pezzi come “Dude (Looks Like A Lady)” degli Aerosmith, “Luck Be A Lady” di Sinatra e “Jump Around” degli House of Pain, tra gli altri, traghettano mente e orecchie esclusivamente verso le scene alle quali hanno fatto da sottofondo.

Il travestimento è il vero protagonista della storia e la trama strizza l’occhio a “Tootsie” con il grande Dustin Hoffman, dove troviamo (sempre come protagonista) un talentuoso attore disoccupato che prova a sbarcare il lunario adottando una nuova identità personale e di genere. In Mrs Doubtfire, l’attore talentuoso ribelle e (quindi) disoccupato, si traveste da anziana signora esclusivamente per amore dei suoi figli. Poi i fatti, inconsapevolmente e di conseguenza, faranno si che l’uomo ottenga anche una meritata opportunità professionale, proprio grazie a quella maschera. Come Daniel Hillard (alias Robin Williams) arriverà a raggiungere il suo obiettivo, è parte integrante della storia.

Euphegenia Doubtfire fa a spallate per tutto il film con il suo alter ego e lo spettatore, che conosce le due identità fin da subito, non può far altro che fare il tifo per papà Daniel, nella speranza che la maschera cada il più tardi possibile. Da una parte fa strano ridere prendersi gioco di una situazione per niente comica e divertente, dato che un divorzio è tutto fuorché una passeggiata, soprattutto emotivamente parlando; a maggior ragione quando ci sono figli piccoli, che vengono loro malgrado travolti da questo vortice, che il più delle volte fa soltanto danni. La bravura degli autori e degli interpreti della storia è tutta nella capacità di rendere esilaranti le gesta del padre di famiglia, pressoché consapevole di essere colpevole della deriva del rapporto coniugale, rendendolo artefice della sua rivalsa e del suo riscatto. Il tutto senza affibbiare direttamente colpe ad alcun coniuge ma lasciando interpretare i fatti allo spettatore. Come ci ricorderebbe la più scontata delle riflessioni:“Da un male può nascere un bene”. Ed è proprio la triste pagina familiare a dare la scossa e spostare gli equilibri. Daniel Hillard, dopo il divorzio dalla moglie Miranda (la bravissima Sally Field) e dopo essere stato allontanato, a mezzo tribunale, dai tre adorati figli Natalie, Lydia e Chris, riesce a crescere mentalmente, a maturare nel suo rapporto con il prossimo. Questo senza perdere la perenne tempra fanciullesca, senza soffocare il Peter Pan che c’è in lui. E sarà proprio la sua presunta leggerezza, unita alla fantasia,a dargli la forza d’animo necessaria a sfruttare il talento di attore per recitare una parte importante. Ciò che alla fine sarà difficile far capire a chi lo scoprirà, però, è il fatto che i suoi sentimenti fossero l’unica parte estranea alla recita, l’unica cosa reale in quel mondo parallelo edulcorato a fin bene e ben lontano da un desiderio di inganno.

Gli eventi mostrano un crescendo esilarante ed emozionante allo stesso tempo. Il cavallo di Troia di Daniel, ovvero la maschera da distinta signora d’oltremanica, gli consente di entrare in quel profondo che sua moglie aveva tenuto da tempo sottochiave. La miccia accesa dalla gelosia, quando il ricco e talentuoso Stuart “Stu” Dunmeyer (Pierce Brosnan), ripiomba dopo anni nella vita di Miranda con intenzioni serie, insidiando il focolare domestico, porta Daniel a concedersi “uscite” al limite del rischio e al picco dell’ilarità, pur di farsi valere.

E tra un corso serale di economia domestica e una pesante (e sempre poco soddisfacente) giornata in fondo al magazzino dell’emittente televisiva per la quale lavora, Daniel riesce a passare il controllo dell’assistente sociale, facendole credere di condividere l’appartamento con sua sorella. Lo sviluppo della scena è degno di un film di Stanlio e Ollio ed evoca prepotentemente l’incursione casalinga del dottor Randazzo in “Johnny Stecchino”.

La scena finale del film rientra tra le parentesi più comiche e memorabili dell’intera filmografia di Robin Williams. Un susseguirsi di eventi rocamboleschi, dove il nostro eroe ci fa entrare in un frullatore di emozioni, fino a quando vedremo capitolare la maschera che non avremmo mai voluto vedere lontana dal suo viso. Quella maschera che sarà la sua fortuna ma che è stata la sua disfatta, nonostante a noi tutti piacesse così tanto. Un travestimento che filtra la realtà alla quale è stata sbarrata la porta principale ma che può ricorrere a un ingresso secondario. Un piano B.

I produttori del film avevano previsto un finale diverso da quello realizzato, dove Daniel e Miranda Hillard sarebbero tornati insieme, rendendo felici i tre figli. Poi ci pensarono e cambiarono idea, rendendosi conto che un finale al miele avrebbe dato false speranze ai figli di genitori divorziati.

Era previsto anche un sequel, la 20th Century Fox aveva svelato i suoi piani in merito, naufragati poco dopo a causa della morte improvvisa di Williams. Forse è stato meglio così, anche se realizzarlo avrebbe voluto dire avere Robin Williams ancora tra noi. Sequel e reboot stanno scomodando troppi classici e miti del cinema, che dovrebbero essere intoccabili. Non so come la pensate voi.

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