Si può raccontare una storia indimenticabile di amore, morte, disillusione e di viaggi temporali sollevando importanti questioni filosofiche, ma riuscendo ad essere comunque estremamente coinvolgente, senza mai scadere nell'intellettualismo o nell'incomprensibile? Si può raccontarla in un cortometraggio di trenta minuti? E si può farlo attraverso non delle riprese, ma delle fotografie fisse, che prevedono l'annullamento di ogni movimento?

Chris Marker l'ha fatto e con una destrezza a dir poco impressionante.
Autore francese di estrema importanza, appassionato di fantascienza e fumetti (le due fonti d'ispirazione di questo film), lo ha fatto con "La Jetée", un vero e proprio film di rottura. Un'opera rivoluzionaria che, quando uscì nel 1962, mandò in crisi i critici cinematografici, incapaci di catalogare un'opera così unica e innovativa, tutt'ora imitatissima con scarsi risultati (c'è persino un remake di Terry Gilliam: "L'Esercito Delle Dodici Scimmie"). Le definizioni che nacquero furono "fantafotoromanzo" (?), "fantamore" e altre nefandezze del genere.

Il titolo può fare riferimento sia ad una rampa di lancio per aeroplani che allo slancio che il protagonista, usato come cavia per degli esperimenti che hanno il fine di salvare l'umanità, intraprende attraverso passato e futuro. Parigi è distrutta da una Terza Guerra Mondiale di dimensioni bibliche. La possibile speranza sta nel ricordo. Il ricordo di un'immagine talmente forte ed evocativa da volerla custodire per sempre.

Perché "La Jetée" non è una storia d'amore per un essere umano, ma per l'immagine, fondamento base del cinema, che qui viene amplificata attraverso un immobilismo dove l'unico, impercettibile, movimento (il battito delle ciglia di una donna) diventa improvvisamente epifania: la vita, l'inesorabilità del tempo e l'illusione di una libertà (il viaggio temporale) che trova spazio solo nella morte. La magia, qui, sta nel rendere il movimento -la potenza inesorabile del cinema divenuta abitudine- un enigma.

C'è un'idea di tempo, di memoria che si rifà a Bergson: non più tempo oggettivo suddiviso in ore, minuti e secondi, ma un tempo soggettivo dove gli istanti sono diversi l'uno dagli altri, la cui lunghezza è determinata dalla nostra esperienza. Se il tempo è soggettivo, però, è anche prigione: il ritorno ad un'idilliaca infanzia non può che portare alla morte. 
Il tempo si materializza attraverso due simboli: gli occhi e i bambini. I bambini hanno, infatti, una concezione del tempo distaccata da una concezione matematica dello stesso: attraverso l'immagine che lo ossessiona, il protagonista cerca di tornare, inutilmente, a quella dimensione d'innocenza che non gli è permessa. L'occhio, invece, è sempre sbarrato, impossibilitato a cogliere la vera essenza dei secondi che scorrono e di razionalizzare la differenza tra passato, presente e futuro. 

L'uomo, incapace di distinguere tra passato e futuro, è destinato alla morte. 

Sono tematiche che Marker riaffronterà in "Level Five" (1996) e che qui trovano già piena maturazione: la donna, ancora una volta, è simbolo incarnato di un equilibrio tra vita (madre) e morte (passato). 

Straordinario esempio di un cinema complesso (bisognerebbe parlarne per ore, ma si rischierebbe di girarci intorno a vuoto) sia dal punto di vista contenutistico che stilistico, imprescindibile per ognuno che nutra un minimo di passione per l'arte cinematografica e, in assoluto, uno dei capolavori dello scorso secolo.

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