Assurdo notare come, nello sterminato archivio debaseriano non compaia neanche il profilo-artista di Chris Marker, un autore spesso dimenticato dalle accademie e dai cinefili, ma allo stesso tempo realizzatore di due film di rottura imprescindibili: La Jetée (1962) e Sans Soleil (1982). Sono due film che rientrerebbero sicuramente in una ipotetica lista dei film da vedere prima di morire, rivoluzionari nella storia del cinema. Il primo è un capolavoro anche solo per essere un racconto estremamente complesso e allo stesso tempo avvincente di un viaggio temporale, di un amore del passato e dell'ossessione per le immagini risolto (senza tagli, ma con un controllo eccezionale dei tempi) in soli 30 minuti di durata. Ma non solo: il film elimina la fase basilare delle riprese per essere formato da semplici fotografie fisse: esaltazione del fotogramma e annullamento totale del movimento, dove l'unico attimo di vita (un impercettibile battito di ciglia della donna) sembra essere uno straordinario miracolo.

Il secondo si colloca come capolavoro di un genere teorizzato dallo stesso Marker: il film-saggio (o essay film, se preferite). Un modo di pensare il cinema come flusso di immagini d'argomento filosofico, spesso accompagnato da un commentaire significativo. Un estatico ed immersivo viaggio tra Africa e Giappone, dove la bellezza compositiva delle immagini assume un andamento ipnotico e impossibile da negare.

Poeta della memoria, Marker ha realizzato anche un'opera meno conosciuta, ma altrettanto importante: "Level Five" (1996).
Testamento artistico del regista francese e ultimo lungometraggio vero e proprio, prima che sperimentazioni in campo informatico e cortometraggi non prendano il sopravvento nell'interesse dell'autore, un uomo che è sempre stato all'avanguardia, grande teorico del cinema (è stato uno dei primi a prevedere il fallimento del cinéma vérité, captando che il genere sarebbe potuto essere un mezzo, ma mai un fine: al cinema, ma nei media audiovisivi in generale, la verità non si può MAI raccontare. La sola concezione dell'inquadratura implica un'esclusione di una porzione dello spazio, e quindi il medium non determina verità assoluta). 

"Level Five" è il primo film di finzione dopo "La Jetée", dove Marker sembra abbandonare la struttura del saggio cinematografico (senza farlo realmente, ovvio) per raccontare una storia che, per la prima volta, è incarnata da un'attrice professionista.
La bravissima Catherine Belkhodja interpreta Laura, una donna che ha appena subito la traumatica perdita dell'uomo che amava. Tutto ciò che è rimasto di lui è un videogioco al quale il giovane ha lavorato giorni e notti intere e che spetta alla donna portare a termine. Come atto d'amore, pur non essendo un'esperta di computer e non conoscendo affatto le tematiche del videogioco, Laura accetta.
Il videogioco è basato sulla battaglia di Okinawa (1945), un evento terribile della Seconda Guerra Mondiale occultato sia dalla storia americana che da quella giapponese per il suo sconvolgente impatto. Una battaglia dove molti civili giapponesi, pur di non essere catturati e torturati, hanno organizzato suicidi ed omicidi di massa. Un contesto dove, per amore, si era costretti ad uccidere anche i propri figli, i propri genitori, il proprio ragazzo, la propria ragazza e tutti coloro a cui più si teneva. Laura rimane sconcertata da quello che scopre e intraprende un cammino di autodistruzione che la porterà a far coincidere il dolore della propria perdita con quello, universale, di Okinawa.

Un film-saggio sulla guerra e sul ricordo, dove la finzione oscilla con il documentario (nel videogioco sono presenti degli "extra": testimonianze e interviste di testimoni e di intellettuali come Nagisa Oshima) e dove, soprattutto, si riflette sul cinema.
La verità non esiste se non viene documentata: noi, non siamo in grado di superare la forza immaginativa ed evocativa dell'immagine, al punto che non ricorderemo mai più ciò che non viene filmato. 
Non è un caso, infatti, se l'evento di Okinawa è stato dimenticato attraverso la distruzione di ogni prova visiva possibile. 

Laura è alter-ego di Marker: una donna senza psicologia, fredda, austera e sofferente. La donna (da sempre uno degli elementi chiave del cinema Markeriano) è schermo, macchina da presa, regista e catalizzatore dei tempi (persino in "La Jetée" la donna era colei che costringeva il protagonista a tornare nel passato e ad affrontare la morte).  Tra le macchine, i computer e gli archivi, la donna (Laura, ricordiamo, priva di psicologia: non è un personaggio volutamente memorabile) è il Marker autore nel suo studio. Quando, invece, si mostrano materiali d'archivio, è Marker stesso che ci parla nell'immancabile commentaire.
L'uomo come essere umano è imperfetto: è o corpo senza voce (Laura) o voce senza corpo (Marker).

La perfezione la si raggiunge nel livello cinque, il livello più alto del videogioco, ma al tempo stesso l'ultimo livello possibile da raggiungere: l'assoluto. L'assoluto coincide con la morte. L'uomo raggiunge il suo equilibrio perfetto solo morendo. 

Un film dalla struttura tipicamente Markeriana, ma al contempo originale, capace di mantenere alta l'attenzione nonostante la sua struttura atipica, dove il regista (ricordiamolo... "Level Five" è il testamento artistico di Marker), incarnato da Laura, è destinato ad autodistruggersi una volta che l'universale (Okinawa) si sovrappone al personale (il lutto). Questo autodistruggersi è incarnato in un finale di raro dolore e di rara bellezza cinematografica: un progressivo sfuocato che cancella il viso dell'attrice, fino a renderla chiazza informe. 

Un documento impressionante e, allo stesso tempo, un grande film che lascia vuoto e riflessione nello spettatore annichilito. 

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