Parlando del regista in questione, la cosa migliore da fare prima di decidere di sedersi in sala è ignorarlo. Meglio; il fottuto hype che sciama per il uebbe fa girare la testa, oltre che rompere i coglioni, già da mesi prima che Nolan si presenti con una sua nuova opera. Quindi forget him!
Qui si parla di Dynamo, e per quanto mi riguarda un film che esce nel 2017 su di un simile evento e concepito da professionisti di un tale livello (ma la considerazione sull’autore si ferma qui!), vale automaticamente la visione.
Che ci ritroviamo dopo due ore? Un meccanismo perfetto, un ingranaggio di climax e anticlimax calcolato al millimetro, un triplice filo rosso scandito dal metronomo che si unisce al momento giusto in un nodo gordiano immenso come lo scafo di una nave che affonda.
Non sto a parlarvi delle musiche (superbo il tema di tastiere che accompagna le varie e successive catarsi, ma occhio, l’autocitazione musicale è un brutto segno…) e del geniale sonoro, della favolosa e granitica autenticità delle navi di metallo e di legno e degli aerei, della sontuosa e calda perfezione delle uniformi. Vi parlo degli scricchiolii, che non sono solo quelli degli Spitifre in caccia, quanto quelli di un intero film che dopo una mezz’ora si capisce che gira perfettamente, ma a vuoto.
Gli autori sembrano aver dimenticato che si tratta di storia, di guerra, ed è proprio qui che la (perfetta) strategia della tensione mostra i suoi limiti. La guerra è ansia, incertezza, paura, ma è anche orrore, sangue & merda, corpi gonfi che puzzano sulla spiaggia. Dunkirk fu un inferno, un martellamento spietato, una grigia disfatta che servì al riscatto di un’intera Nazione. Qui non c’è sangue, non c’è caos, c’è solo la sequenza di bombe e naufragi, la rassegnazione di personaggi sparsi che accettano gli eventi con la stolidità di un mulo. Nell’impeccabile e sontuoso disegno tecnico si cela il grosso limite di Dunkirk.
Tutto perfetto, ma i traccianti sparati da Tom Hardy innaffiano gli Emil e gli HE111 con facilità stucchevole; gli arei nemici, con a bordo probabilmente i peggiori piloti della Luftwaffe, calano diligentemente in mare con eleganza ammirevole ma assurda. Il fuoco brucia con violenza circoscritta, le bombe bucherellano il molo con precisione e pattern quasi teneri, le deflagrazioni alzano spruzzi di acqua e fumo che appaiono quasi ridicoli, le navi ruotano diligentemente mentre affondano trascinando topi color kaki con sé. Ma praticamente la guerra non c’è. Il film nel suo complesso riesce ad apparire paradossalmente statico, il che è bizzarro se si pensa che Dynamo, che forse fu una delle più epiche imprese dell’esercito di sua Maestà, già nel nome porta in sé un’idea ben diversa.
Nolan ha scelto Dunkirk probabilmente perché qui si concentra, proprio tra terra, mare e aria, l’energia indomita dei soldati del vecchio Impero, quello spirito di rivalsa e orgoglio che da Balaklava a Rorke’s Drift fino alla Battaglia d’Inghilterra, serpeggia come un mito nell’immaginario inglese, militare ma non solo. Ed è proprio questo il leitmotiv che accompagna il film, dalla tagline fino ai motivi stessi che spingono i pochissimi ufficiali presenti ad agire. Il regista vuole calarsi in questa realtà e nello spirito stesso dei dettagli, ma per fare questo l’ampio respiro dell’evento storico si riduce a poche boccate d’aria.
Forse, avendo una passione quasi maniacale per le realtà e il contesto storico dei grandi eventi, accuso particolarmente questo tipo di approccio e forse la forza del film sta proprio in questo stravolgimento dell’idea stessa di cinema bellico, ma in fin dei conti non sono qui a dirvi cosa dovete pensare, quanto a dirvi cosa ne ho ricavato io dopo le suddette due ore.
Credo che Dunkirk rimarrà impresso per come è girato, concepito, vissuto, per come vibra e ansima. CGI praticamente a zero, props e modellini mai così efficaci (e questo per me è sublime). Ma credo anche che lasci tutto sommato perplessi, sollevati ma inappagati. Sembra che Nolan volesse mettere in scena lo spirito di picchi, crolli e afflato catartico della tragedia antica, sbagliando focus; la guerra è molto di più, è molto peggio, la tragedia non è caos, è strutturata rigidamente come lo è il film e come non lo fu affatto la fuga dalle spiagge francesi. Ah sì, di francese c’è solo la spiaggia, qualche elmetto e un gesto di vigliaccheria, o meglio paura di morire, appiccicato con lo sputo; già questo è più che sufficiente per fare storcere il naso a molti. E comunque alcune scene se le potevano tranquillamente risparmiare: in questo senso l’impresa e il destino del già citato Tom Hardy suonano quasi come una lunghissima e patetica pernacchia.
Detto ciò, la bellezza emerge prepotente dalle inquadrature. La spiaggia, le onde marroni striate come il marmo, il sole che tramonta, brilla e sorge su di una Manica mai così grandiosa, il verde e il grigio, le nuvole plumbee che celano gli sgraziati corpi delle navi immobili. Nolan non è né sopravvalutato né fortunato, è semplicemente bravissimo a fare il suo mestiere.
Questo mi è venuto in mente appena rientrato dalla visione.
Ma forse tra qualche ora mi renderò conto che Nolan è molto più scaltro, e che al Regno Unito che lascia l’Europa con la coda fra le gambe in realtà fotte una sega delle bianche scogliere di calcare, e non ha nemmeno la consolazione di avere al suo rientro in patria un Churchill che gli possa dire dove cazzo deve girarsi. Dico forse, eh.
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