Se nella culla del rock and roll Elvis Presley ha messo la faccia, i colpi di bacino e quel carisma che lo ha reso una leggenda tipicamente americana, è indubbio che pochi come Chuck Berry possano affermare di averci posato il cuore. Charles Edward Anderson Berry è stato certamente tra quei basilari "eletti di rottura" che hanno inserito le pietre d'angolo del pop e del rock nel XX secolo.
Del rock and roll Berry rimane l'icona insuperata: di questa alchimia sfrontata e pericolosa ne detiene la formula, avendo modellato espressione e linguaggio definitivo dello strumento principe di tale liturgia: la chitarra elettrica. Come si sa, a metà degli anni 50 quello strano ibrido tra country e blues che Alan Freed per primo ha definito Rock abbandona repentinamente quel ghetto musicale fatto di etichette come "Race" o "Rhythm and blues" in cui le case discografiche piazzavano i prodotti destinati ai neri americani poveri. In un batter di ciglio, tale genere diventa linguaggio musicale universale e comun denominatore generazionale, benché rivolto in particolare ai giovani bianchi. La sei corde di Berry diventa il simbolo di questo cambiamento epocale. Da essa convergono e si irradiano riff e assoli micidiali e alieni, carnose scale blues sublimate nella giostra veloce e indiavolata del passo boogie, capaci di stordire un intero emisfero e spingendo tutti coloro che in seguito esalteranno il genere, da Keith Richards a Hendrix, a imbracciare lo strumento
Berry, l'artista di colore amatissimo anche dai WASP, primo animale del palco grazie ai vari rituali che esaltavano la micidiale potenza messianica del suo strumento (celeberrimo il suo "passo d'oca"), è altresì tra i primi a creare un proprio immaginario, sensibile al mutare dei tempi. Negli anni di "A rebel without a cause", egli capisce che il segreto del rock sta nel carpire le pulsioni del pubblico di teenager, completando il lavoro di Presley e ponendo le basi per quella proto-liberazione sessuale a colpi di rock and roll che nel decennio successivo troverà piena realizzazione con Rolling Stones e Doors. Sintomatica in tal senso tutta la sua tematica "scolastica" da consumato marpione, con archetipi pop quali "School day", "Sweet little sixteen" o la filastrocca lasciva "My Ding-A-Ling", benché nell'ampio catalogo berryiano non manchino inni anti-razzisti come "Too much monkey business", derive intimiste come "Deep feeling", o momenti persino lugubri e ossessivi come "Memphis Tennesse".
Impossibile scegliere un solo album: molto meglio consigliare un'ampia retrospettiva come "The Chess Box", in cui ovviamente figurano tutti i suoi immarcescibili cavalli da battaglia, quasi tutti resi sincopati e febbrili dal basso di Willie Dixon, dalla pirotecnica batteria di Fred below (si senta la già citata "School day") e dal piano di Johnnie Johnson. Non si può non citare almeno "Maybellene" (il primo grande successo del 1955, il paradigma degli assoli scintillanti del nostro), "Roll over Beethoven", "Johnny B. Goode", "Carol" e ovviamente quella "You never can tell" la cui apparizione della scena di ballo di "Pulp Fiction" non ha fatto che confermare la freschezza eterna del repertorio di Chuck Berry.Carico i commenti... con calma