Quali che siano le ragioni del profondo legame tra Rob Younger e l’Italia, ogni rocker nostrano dovrebbe quotidianamente menarne vanto: ormai da anni, Rob visita con costanza questi lidi, talora con i redivivi Birdman, talaltra con i reduci New Christs, quando in solitaria.

Ma è dagli anni Ottanta che Rob Younger è un assiduo frequentatore del suolo italico, non solo per incendiare instabili palcoscenici tirati su in fretta e in furia in qualche nebbiosa landa, ma anche in veste di produttore di giovani gruppi di belle speranze: tra questi, ricordo con estremo piacere i cugini transalpini City Kids.

Vengono da Le Havre; Rob in qualche modo si accorge di loro e pensa che, sì, sono in gamba abbastanza per dargli una mano in studio di registrazione. I primi approcci routinari vanno a buon fine, per cui si può fare. Rob prepara le valigie, salta in macchina direzione aeroporto, giusto una deviazione per caricar su il fidatissimo Alan Thorne – la coppia più bella del mondo rock mai appaiata in uno studio di registrazione – i due si imbarcano e, dopo un trasvolo intercontinentale, planano nel Vecchio Continente. Dove? In Italia, è ovvio, a Firenze.

È agosto 1986, a Firenze è difficile surfare come a Sidney, al limite ci si può strafogare di cultura rinascimentale e bisteccone alte tre dita, ma Rob ed Alan sono lì per altro, hanno una missione da compiere; da lì a qualche giorno arrivano anche i quattro Kids e tutti insieme si barricano negli Emme Studio a sudare roccherrolle. Ci sono anche quelli della I.R.A. per assistere allo spettacolo e per mettere il loro marchio sul vinilozzo nero che sarà partorito da quelle sessions.

Dopo nemmanco una settimana le porte degli Emme Studio si riaprono alla luce del torrido sole agostano; i City Kids se ne tornano a casa, così come Rob ed Alan: portano sottobraccio alcune bobine da missare e masterizzare a dovere a Sidney. Il dinamico duo lavora sodo perché una missione va portata a compimento senza frapporre indugi e, quindi, ancora pochi giorni ed ecco «The Orphans Parade».

La copertina è bellissima, tra le più belle del decennio.

La musica è roccherrolle, perché la formazione base è il classico quartetto voce/chitarra/basso/batteria che macina suoni decisi e nervosi, «Poison Dream», «The Real Thing» e soprattutto «S.H. Infirmity» potrebbero diventare piccoli inni, non va così ma va bene comunque. Ma è roccherrolle non convenzionale, se si presta fede al violino ed al cello che fanno capolino in «Rebels», «Nightfall» ed «All Fools Day», e la solenne impostazione wave del cantato fa di «The Orphans Parade» un curioso ibrido tra i Litfiba del «Desaparecido» e della I.R.A. che fu ed i New Christs del «Distemper» che sarà, anche quello prodotto made in Italy, l’industriosa Milano in vece della dotta Firenze.

«The Orphans Parade» non è un capolavoro, ci mancherebbe altro, ma un disco che fa bene avere in discoteca e degnare di un ascolto di quando in quando, anche dopo trent’anni dalla pubblicazione, questo sì, senz’altro.

Carico i commenti... con calma