Giunto all'ennesimo film di Chabrol ho accertato due fatti: ho capito perché molta critica lo considera uno tra i più autorevoli registi francesi e ho avuto conferma di un'impressione: c'è spesso qualcosa di indicibile, nelle donne del cinema di Chabrol, uno scarto, una marginalità rispetto alla scena, la presenza di un'estraneità radicale rispetto alla normalità della vita. La grande capacità di una direzione sobria e il tratteggio di un mondo femminile che riesce a vivere la follia nell'ovvietà sono i due elementi cardine di questo lungometraggio intenso, che il regista trae dal romanzo A Judgement in Stone (La morte non sa leggere, 1977) di Ruth Rendell.

La storia, è la storia di una colf, che vive divisa tra la normalità esteriore della vita in un paesino di campagna, vicino Saint-Malo e un universo interiore dilaniato dall'incapacità di leggere (reale e metaforica). Chabrol segue con occhio attento ma neutrale lo scorrere lieve e lineare delle vicende, il suo obiettivo si sofferma su particolari che acquisiranno importanza soltanto nelle ultime scene del film, particolari che non sapranno rivelare nulla prima del tempo. Segue le vicende di Sophie (una clamorosa Sandrine Bonnaire), assunta come colf nella casa borghese dei Lelièvre, donna di servizio alle prese con le difficoltà di lettura, non solo dei post-it lasciati dai padroni sul frigo di casa  ma anche del contesto sociale in cui è stata misteriosamente (all'inizio del film c'è una agitazione nell'aria che ha un qualcosa di misterioso, d'inspiegato) catapultata. Chabrol utilizza l'analfabetismo di Sophie come metafora di una sorgente negatività, come incapacità di lettura o intenzionale rifiuto del mondo circostante, di quel mondo borghese che soffoca la ragazza e la umilia, che non l'accetterebbe, se solo sapesse della sua dislessia. La conoscenza della giovane postina del paese, che caratterizza un ipotetico secondo atto del film, acuisce ancor più questi sentimenti, risentimenti (per essere precisi) raccontati soprattutto attraverso silenzi e ombre, dove ogni azione avviene dietro la tenda di una insulsa, pretesa, normalità.

Il desiderio di rivalsa delle due ragazze costrette a vivere nel becero antagonismo borghese, affogato nel lusso e nello sfarzo di una cultura inutile, si esplicherà a pieno nella scena finale del film, dove la famiglia Lelièvre, assiepata davanti al televisore, per seguire il Don Giovanni di Mozart, viene sterminata a colpi di fucile, tra le risa isteriche delle due poverine. Finale macabro che fa affiorare la lieve tensione che cova sotto la superficie dell'intera pellicola. L'anomica normalità che permea tutta la vicenda - vicenda che rimane avvolta in colori plumbei per tutta la durata del film - si tinge di rosso sangue nell'atto finale, per lasciare il passo ad un inquietante conclusione, dove Sophie, che s'allontana dalla villa dei Lelièvre, passa tra i gendarmi che non le fanno caso: residuo ai margini della sequenza, nonsenso nell'ovvio, opacità che permane nella trasparenza.

Qualcuno ha parlato di visione neo-marxista, giudicando questo film come una riattualizzazione delle tematiche legate ad una lotta di classe mai sopita, che vede solo mutati i propri termini sociali di riferimento. Interpretazione, che a me pare, plausibile ma riduttiva: l'elemento da cui prende le mosse l'intero corpo del film è, di fatto, eminentemente psicologico: attribuire tutta questa importanza alla condizione materiale delle due - che è comunque rimarcata più volte dalla mano di Chabrol - sembra fuorviante. Sin dall'inizio la normalità è venata da alcuni comportamenti maniacali di Sophie, delle sue paure che irrompono, d'improvviso, in scene di placido grigiore quotidiano, divenendo terrore, implacabile angoscia. Senza muovere l'obiettivo di un millimetro Chabrol sa scuotere la nostra schiena di spettatori e sa tenere alta l'attenzione anche in passaggi squallidamente insignificanti, un esempio sono le scene in cui Sophie s'ingozza di cioccolata e tv, per non pensare alle proprie menomazioni e al proprio burrascoso passato, per non sentire.

Un film che vuole svelare qualcosa sui nostri tempi post-moderni e sulle malattie contemporanee, che il regista, sembra suggerire, legati a doppio nodo con i guasti della percezione. L'intero film - che è immagine, colore, suono, quindi sensazione - sembra corteggiare l'idea per cui, le malattie odierne affondano le proprie radici nella quotidianità più insospettabile, si annidano e operano lentamente sui sensi, sostituendo all'Io, un altro Io fantoccio, un Io fosforico e illusorio che deforma, una volta per tutte, lo scorrere delle immagini e, quindi, della vita sotto i nostri occhi; sguardi sempre più impauriti, sempre più soli, sempre più convinti di ciò che vedono e potrebbe non esistere.

Un film non certo adatto all'intrattenimento giocoso, non adatto per passare una piacevole serata in compagnia. Un'opera che va analizzata attentamente cercando, oltre l'immagine, una ragnatela di significati e messaggi, che Chabrol suggerisce con l'indagine del proprio obiettivo, disseminando segni per tutto il film.

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