Paul e Nelly sembrano una coppia felice. Proprietari di un albergo sui Pirenei, hanno un bambino e conducono una vita stancante ma dopo tutto soddisfacente se non fosse per un piccolo particolare: la gelosia di Paul. Il sentimento dell'uomo nei confronti della donna non si esaurisce tuttavia in qualche scenata di tanto in tanto, ma assume caratteristiche quasi paradossali. La segue dovunque vada, vive nel perenne sospetto del tradimento, immagina nei più piccoli particolari i suoi convegni amorosi. Nella realtà, Nelly è una donna fedele (O almeno non vengono forniti indizi che ad un qualsiasi individuo sano di mente possano far pensare all'adulterio) forse un poco vanesia, civettuola, ma fedele. Il marito però non crede alle sue parole, non riesce a giustificarla e la trascina in un incubo senza epilogo.
Ammetto una pecca: Chabrol è uno dei registi che meno conosco e che meno amo, forse proprio in virtù della mia ignoranza. Confesso di aver visto davvero poco nonostante possa vantare una filmografia sterminata, e di avermi addirittura provocato un forte rigurgito di indifferenza con il suo "Madame Bovary", al quale mi ero accostato con un certo entusiasmo, memore di quanto ho adorato l'opera di Flaubert. Ebbene, con questo "L'inferno", suo quarantottesimo lungometraggio tratto da un film incompiuto del 1964 con protagonisti Romy Schneider e Serge Reggiani, Chabrol non mi fa cambiare idea. Ma per ragioni di credibilità credo sia opportuno mantenere toni più oggettivi.
Senza dubbio segna un punto a favore l'interpretazione del protagonista maschile, François Cluzet, uno degli attori francesi più celebri all'estero nonché prediletto da Chabrol quasi quanto l'immensa Isabelle Huppert, questa volta assente. A lui il compito di riprodurre sullo schermo la figura di un marito possessivo che si finge disinvolto, di un uomo ossessionato dal tradimento e disposto proprio in virtù di ciò alle più patetiche ridicolaggini, senza però scivolare nel grottesco. Cluzet ci riesce alla perfezione, simulando verosimilmente l'isteria e la frustrazione di desiderare ciò contro cui combatte. Paul trae godimento dai suoi sospetti - fantasie, nell'immaginare la sua donna con altri e contemporaneamente gusta l'idea di scoprirla, di provocarle vergogna e condurla sulla strada di ciò che per lui è la redenzione: che lei si leghi definitivamente a lui, che riesca a possederla nel corpo e nella mente. In poche parole gusta l'idea della rivalsa. Non classificata per Emmanuelle Bear nei panni di Nelly. Difficile stabilire se è la sua interpretazione a risultare insipida o il personaggio a non avere alcuno spessore, sussistendo nell'ambito della sceneggiatura solo in funzione di oggetto del desiderio di Cluzet. Ne resta solo la conturbante bellezza di alcune scene.
L'interesse centrale della sceneggiatura resta l'analisi del sentimento ossessivo di Paul. Chabrol sceglie deliberatamente di non battere altra via fuorché l'indagine sentimentale, seguire pedissequamente le vicende della coppia, tema caro a molti altri colleghi, francesi e non. Lontano dal lirismo di un Bergman, dall'effervescenza onirica di un Fellini, dalle nevrosi intellettuali di un Allen, Chabrol segue la storia con l'occhio di uno scienziato, attenendosi al fatto reale e al dato psicologico, cosicché il tremendo supplizio che Paul infliggerà a Nelly sembra allo spettatore la naturale conseguenza di quanto accaduto, senza vittima nè carnefice. Resta l'amarezza e l'angoscia di un finale aperto più che incompiuto, spalancato sull'eternità proprio come l'inferno del titolo, e questo nobilita senz'altro la pellicola evitando facili moralismi e prese di posizione a favore o contro il marito o la moglie. In fondo parliamo di Chabrol, mica "Uomini e donne"?
Eppure non mancano i punti deboli. Bear a parte, "L'inferno" si carica di atmosfere claustrofobiche che a lungo andare sfiniscono piuttosto che coinvolgere l'osservatore e la perizia tecnica, lungi dal supportare la resa complessiva, diventa esercizio di stile, un ritornello lezioso. Il tutto risulta eccessivamente programmato nel minimo dettaglio e quindi fastidiosamente "perfettino". Estromessa la satira sferzante sul mondo della provincia, aspetto che in ogni caso viene relegato ai margini, resta solo la descrizione stancante di un amore bulimico. In definitiva, l'opera si risolleva in calcio d'angolo con il ritmo serrato della parte finale e con un epilogo a sorpresa, trascinando lo spettatore dalla noia all'attenzione.
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