Manca un'emozione autentica, e in un film autobiografico è quasi un assurdo. Alcune belle idee non supportate da un copione e da uno sviluppo all'altezza, pur ispirandosi il regista a un fatto a lui realmente accaduto nel 1976. Suo padre, il vicequestore Alfonso Noce subì un attentato da parte dei Nuclei Armati Proletari davanti a casa.
Lo stesso succede all'Alfonso Le Rose ritratto da Favino (che qui recita con il pilota automatico), ma il protagonista è il figlio Valerio, controfigura del regista. Quel che succede nel mondo intorno a lui passa in secondo piano, perché centrale è come lui percepisce le cose, come le rielabora e interiorizza. Il mondo che vediamo non è oggettivo, ma filtrato dalla cinepresa degli occhi di Valerio.
Eppure, in una dimensione così apparentemente personale, non troviamo granché di significativo. Sembra invece una lezioncina di psicanalisi un po' semplicistica. Valerio inizia a dare in escandescenze, a spiare il padre, a fare lunghi giri lontano da casa. È la scoperta del mondo degli adulti, che in un primo momento intriga, ma col passare dei minuti si mostra nei suoi limiti.
Un film sui bambini è anche più difficile da realizzare di un film sugli adulti: perché i bambini sono insondabili, sono differenti, incompleti. Siamo stati tutti bambini, ma sappiamo dire davvero che cosa pensavamo allora? Sono più semplici di noi e, come si sa, la semplicità è la cosa più difficile da raggiungere. Raccontare una mancanza, un vuoto, la ricerca di un significato, è compito arduo.
E qui tutto fa pensare che nemmeno il regista sappia bene cosa dire, a parte alcuni spunti più superficiali (l'amicizia tra pari, l'affetto padre-figlio): il suo girovagare tra i concetti è simile al girovagare di Valerio insieme al suo amico Christian, in un gioco tra reale e immaginario che ricorda a tratti il doppio di Fight Club.
Non essendoci un vero crescendo conoscitivo, non avendo argomenti veri su cui incardinare il percorso di crescita del protagonista, il film vive di trovate estemporanee, piccole disavventure, e il quasi frustrante quesito che insiste sul personaggio di Christian: è vero o immaginato?
Apparenti contraddizioni che invece di intrigare irritano, e nulla danno alla tessitura della crisi che vive Valerio dopo aver scoperto il mondo violento degli adulti. Valerio dà un po' fuori, si ribella, scappa. Ma parole e pensieri non dicono quasi nulla allo spettatore. Le scampagnate, le bevute in ville diroccate, le sfide a pallone in mezzo ai prati non hanno purtroppo un sottotesto psicologico degno di nota.
E neppure lo stile può salvare la baracca. A parte la scansione delle inquadrature, che spesso si affida all'ovvio, colpiscono in negativo due scene in particolare: quella che ricostruisce l'attentato con in sottofondo Buonanotte fiorellino di De Gregori e quella decisiva sul rapporto tra Valerio e Christian, che si sviluppa sul dilagare delle Impressioni di settembre. Ma l'unica impressione è quella di vedere appiccicate alle sequenze alcune canzoni amate dal regista, ma del tutto inadatte ai momenti del film.
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