Alla conclusione di una parabola che li vide centrare almeno due obbiettivi di rilievo proprio a cavallo tra la fine degli '80 e l'inizio dei '90, i Clock DVA di Adi Newton pubblicarono il loro ultimo album ufficiale in studio manifestando il sopravvento di una certa aridità di ispirazione; dunque, chiudendo la loro carriera di cavalieri cyberpunk in modo non proprio notevole. "Sign" è un disco piuttosto annacquato, carico di idee saprute tirate per le lunghe, impossibilitato a dire qualcosa di originale dopo il solco tracciato da titoli come "Buried Dreams". Titoli che avevano segnato un'epoca, sintetizzando le immagini della vertiginosa contaminazione tra cibernetica e cultura di massa che in pochi anni aveva stravolto il rapporto tra macchine digitali e umani. "Buried Dreams" e non solo: "Man-Amplified" appena venti mesi prima di "Sign" aveva perfezionato - più nei concetti che nella musica in sè - la visione mistico/profana dell'uomo inevitabilmente legato alla tecnologia e destinato a digitalizzare in qualche modo la sua esistenza.
"Sign" in qualche modo tenta di riportare ad un grado più onirico ed emotivo l'universo delle nuove culture, rarefacendo le sonorità e i ritmi e puntando su colori meno abbaglianti di quelli che avevano scolpito "Buried Dreams": con il risultato di produrre una serie di brani piuttosto lunghi e dilatati in cui la ripetitività - non più nervosa e martellante - perde la sua efficacia originaria. Ecco che dalle malinconie sognanti di "Return to blue" si attraversano sentori cosmici con "Eternity" e metafisci con "Pool of Shades", ipnotizzati da cadenze minimali che echeggiano fredde anche quando la voce profonda di Newton recita le sue litanie.
I Clock DVA erano cresciuti nel crogiuolo di Sheffield mescolando gli esperimenti dei prodromi industrial con altri generi meno consueti nel panorama indie (jazz, funk, ecc.) e dopo la buona prova di "Advantage" avevano consolidato con "Buried Dreams" il loro interesse per il filone cyber, godendo di credito e notorietà per il melange elettronico dalle atmosfere molto accattivanti e dai ritmi variegati. Evidentemente il legame con quel certo momento culturale e sociale si è esaurito con l'omologarsi delle iconografie e anche delle mode, esaurendo parimenti l'interesse del pubblico in un contesto che musicalmente doveva cercare un punto di svolta anche su altri lidi (quello dell'EBM, ad esempio, o delle varie frange industrial di Skinny Puppy e Front Line Assembly).
Nel complesso "Sign" non lascia il segno, concedetemi il gioco di parole. Capitolo di chiusura di un ciclo, appare appiccicato canto del cigno di un progetto che ha avuto un bell'impatto globale. Due ascolti e ti entrano al massimo due brani; al terzo fermi il cd a metà e buonanotte.
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