Più che un vero romanzo una sceneggiatura, da cui in effetti fu tratto il film omonimo di Al Ashby (1971) diventato col tempo un cult-movie, mentre lo spunto originale – questa sarcastica operina di Colin Higgins appunto - è stato dimenticato. Merita invece una rilettura, se non proprio una riscoperta, perché nell’esile trama di un amore impossibile tra un ricco post-adolescente alla ricerca di sé e una stramba settantanovenne dal molto vissuto c’è tutto lo spirito trasgressivo di quegli anni. La fitta serie dei dialoghi tra i protagonisti e la vivacità degli scenari immaginati dipingono una sorta controcultura che nell’assurdità delle situazioni si contrappone alle regole e alle figure della buona società: la scuola e la famiglia borghese e poi il parroco, il poliziotto, il generale e lo psicologo per arrivare rapidamente ad un finale a sorpresa dove il passaggio di una vita sembra concentrarsi nel lascito di un oggetto simbolo come un mazzo di chiavi passe-partout perché dopo aperta una porta (guarda caso Jim Morrison era morto proprio in quell’anno) ce n’è sempre un’altra. È proprio lo spirito hippie dei figli dei fiori con l’aggiunta di visone olistica della vita in cui tutto si trasforma e la morte è solo un passaggio. «Cominciamo a morire non appena siamo nati. Che cosa c’è di così strano nella morte? Non è una sorpresa. Fa parte della vita. È trasformazione». Ancora attuale e molto New Age. Chissà (ci vorrei sperare) se il buon Colin Higgins si ricordò di questo dialogo prima di lasciarci per AIDS non ancora cinquantenne. Leggere (o rileggere) questo libro per non dimenticarlo e magari scoprire tra le sue altre opere ancora qualche perla leggera e ironica.

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