Venivano dal Minnesota, ma non si direbbe. Ad ascoltare questo loro folle esordio (anno 1987), sembrerebbero della “scuola” dei Butthole Surfers. Ossia, redneck all’ennesima potenza.

Il debut-album dei Cows di Shannon Selberg è un capolavoro dell’“hardcore alla texana”. Che poi il loro quartier generale fosse Minneapolis, la capitale del “pop-core”, ha francamente poca importanza. Anzi, ne ha: è un aspetto che conferma ed accresce il carattere iconoclasta di questa scapestrata formazione. Mentre Mould e Westerberg si struggevano per le loro storie finite male, Selberg e soci davano allegramente della zoccola alla propria madre (la turpe, immonda “Mother (I love that bitch)” non lascia spazio a dubbi). Roba da veri punk.
Non so cosa quale fosse l’opinione di Selberg riguardo a Huskers e Mats, ma beccatevi la seguente chicca. Durante un’intervista ai Cows, il giornalista chiese: “Qual è il concetto che sta dietro la vostra musica?” E Selberg rispose: “Ma vaffanculo, chi sei? Un altro di quei luridi europei che hanno bisogno di un “concetto” per alzarsi la mattina?” In questa perla di saggezza, è racchiuso tutto il senso dell’operazione cows-iana. Il concetto che sta dietro la loro musica, appunto.

I propositi eversivi della band emergono immediatamente dall’abominevole uno-due iniziale: “Cow Jazz” e “Car Chase” non sono “canzoni”, ma allucinanti sarabande rumoriste all’insegna del caos più totale, da far impallidire i Red Crayola (texani, guarda caso…), con torture chitarristiche di ogni sorta, drumming invasato, basso vertiginoso e un Selberg che anzichè “cantare” si limita spesso a sbraitare come un dannato dell’inferno o a ripetere all’infinito il titolo del brano; il tutto condito con una tromba orrendamente strimpellata. Sono due brani che danno la misura dei propositi sonici della band.
Ma anche quando la forma-canzone viene in qualche modo recuperata, i Cows non alleggeriscono affatto i toni. Il loro brano-tipo si regge su linee di basso penetranti, sguaiate, cannibali, sulle quali la chitarra di Thor Eisenstrager si lascia andare ad un accompagnamento free-form, memore della lezione della no-wave e di Paul Leary, all’insegna delle scordature e delle dissonanze più bieche.
Nascono così brani dal tessuto armonico completamente sfaldato, come “Sieve”, che procede per agguati, scatti e spasimi (complice una batteria particolarmente versatile, oltre che potente), “On Plasma Road” (dal balordo riff stridente), “Pictorial” (con una chitarra maniacale che percorre l’intero brano come una serpe velenosa) e “Yellobelly” (giocato su cadenze più ragionate, ma proprio per questo ancor più perverso), con le grasse risate di Selberg a far concorrenza a Gibby Haynes…Se “Redhouse” e “Tourist” saldano il conto col vizioso garage-rock degli Stooges, “Summertine Bone” (parodia della celebre “Summertime Blues” di Eddie Cochran) ottiene la palma della cover più assurda che sia mai stata realizzata: le parti che dovrebbero essere cantate sono state sostituite dai rivoltanti scarabocchi di una tromba sgonfia.
La chiusura è affidata alla lunga “Weird Kitchen”, elegia a tempo di processione, lamento apocalittico in cui si sublima l’idea di una musica tanto buffa e divertente, quanto segretamente “seria”, ambigua dunque nell’effetto complessivo. Vengono in mente i Flipper, con la loro immondizia sonora capace però di esprimere il senso (nichilista) dell’esistenza con efficacia disarmante.

I Cows rientrano dunque a pieno titolo tra i folli che hanno animato la scena alternativa americana degli anni 80. Ci mancano.

Elenco tracce samples e video

01   Koyaanisqats ()

02   Cow Jazz / Car Chase ()

04   On Plasma Road ()

05   Yellowbelly ()

07   Carnival Ride ()

08   The Pictorial ()

10   Summertime Bone ()

11   Mother (I Love That Bitch) ()

12   Weird Kitchen ()

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